Da alcuni anni si sta sviluppando, in molte città italiane, un modo nuovo ed originale per ricordare persone che hanno dato la vita per opporsi al nazifascismo. Si tratta delle “pietre d’inciampo”, costituite da formelle di porfido rivestite di ottone e posate per terra o sui muri dei luoghi nei quali abitavano i deceduti nei lager nazisti. Sono nate da una geniale iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig, che appone le prime pietre a Colonia, nel 1992, per ricordare donne, bambini, uomini suoi vicini di casa, amici, colleghi uccisi dalla furia nazista. Affermò allora di essere sempre inorridito nell’incidere i loro nomi, prima di apporle davanti alle loro case, ma di farlo perché ogni nome gli ricordava un’immagine: era come se le persone fossero ritornate a casa.
Da allora, le “Pietre d’inciampo” si sono diffuse in molte città tedesche, austriache e anche italiane, situate, per lo più, nel centro nord, anche se non mancano nel sud. Ormai sono migliaia. La prima città ad impiantarne circa trenta è stata Roma, nel 2010, a cura dell’associazione Arte e memoria. Tante altre città italiane hanno seguito l’esempio. Ne ricordo alcune: Torino, Reggio Emilia, Bologna, Firenze, Livorno, Siena, Prato, Genova, Trieste, Venezia, Parma, Palermo, l’Aquila e tante altre. In totale, 130 Comuni. Ma la città che, in seguito, le ha notevolmente diffuse è Milano, dove è stato costituito, nel 2016, un apposito Comitato per le Pietre d’inciampo, per rafforzare una memoria comune delle persecuzioni nazifasciste. Al Comitato aderisce il Comune di Milano, l’Anpi, associazione nazionale partigiani italiani; l’Aned, associazione nazionale ex-deportati nei Lager nazisti; l’Anpc, associazione nazionale partigiani cristiani; l’Anppia, associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti; la Fiap, federazione italiana associazioni partigiane; e poi la Rosa Camuna; il Centro di documentazione ebraica; la Fondazione in memoria della deportazione; la fondazione Memoria della Shoah; l’Istituto Ferruccio Parri; i sindacati CGIL, CISL, UIL. Le massicce adesioni spiegano perché la città di Milano abbia già deposto 145 “Pietre d’inciampo”, sulle circa 1.500 apposte in tutta Italia.
In questo mese, ne sono state deposte 24. Tra queste, una in memoria di Ettore Barzini (foto), antifascista con un cognome noto, morto poi nel lager di Melk. Ce ne ricorda la storia il nipote Andrea Barzini con il libro Il fratello minore, pubblicato da Solferino. Dopo aver vissuto e lavorato negli Stati Uniti, si era poi trasferito in Giamaica prima e in Somalia poi. Al momento dell’invasione fascista dell’Etiopia, Ettore torna a Milano. Nel 1943 entra in contatto con persone già impegnate nella Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Scrive il nipote Andrea Barzini, figlio del grande giornalista Luigi Barzini su Repubblica del 19 gennaio 2020: «È uno dei primi arrestati assieme al suo amico Leopoldo Gasparotto, che era il capo a Milano di quella formazione antifascista. Portato a S. Vittore, da quel momento di mio zio non si sa più nulla. Ci sono tracce di lui nei racconti di altri prigionieri, che hanno riferito come si adoperò per far viaggiare lettere e comunicazioni… È un personaggio di cui mi sono innamorato, anche se nella mia famiglia non ce n’era traccia». Ettore Barzini muore nel lager tedesco di Melk.
Dietro ad ognuna di queste “Pietre d’Inciampo” c’è una vita spezzata dal nazifascismo, che noi tutti dovremmo conoscere e venerare. Questi caduti ci hanno fornito un chiaro esempio del desiderio di libertà che non si ferma, non arretra dinanzi al pericolo della morte. Esempio particolarmente importante oggi, quando sembra che certi ideali siano da taluni messi in discussione. Purtroppo, non siamo riusciti ad essere completamente conseguenti con quanto, il 10 febbraio del 1946, quindi all’indomani della Liberazione, scrisse Giuseppe Scalarini su l’Avanti a commento di una sua vignetta: «Abbiamo strappato la pianta, bisogna strappare la radice».
Sergio Caivano