Il 27 gennaio ricorre il settantasettesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Quel giorno i soldati dell’Armata Rossa, giunti in anticipo rispetto ai tempi previsti dai tedeschi, che non hanno pertanto la materiale possibilità di far sparire le tracce del mostruoso scempio compiuto, liberano il più grande campo di sterminio nazista. Agli occhi dei militari sovietici si presentano circa settemila deportati, ormai ridotti a larve umane, incapaci di comprendere cosa stia accadendo. Vengono alla luce migliaia di cadaveri ammassati gli uni sugli altri, resti di pigiami infinitesimi, capelli strappati, scarpe bucate, denti d’oro, alcuni gioielli rimasti, le torrette da dove i guardiani avrebbero sparato a chi avesse tentato di superare il recinto di protezione, le camere a gas, i forni crematori. Un orrore mai visto, impensabile. Tanto che il comandante del reparto dell’Armata Rossa che entra per primo nel campo, un uomo rotto ad ogni esperienza, strenuo combattente di una guerra spietata, com’è diventata quella tra russi e tedeschi, nella quale ormai non si fanno più prigionieri; ebbene, quest’uomo indurito dalle battaglia sostenute, dai prigionieri uccisi, di fronte a questo spettacolo si copre il viso con le mani e si mette a piangere come un bambino.
Auschwitz, col prolungamento realizzato di Birkenau per consentire un maggior afflusso, va ben oltre gli altri lager e campi di concentramento. Rappresenta il massimo di efficienza operativa, di sadismo e crudeltà. Costituisce il fiore all’occhiello per un paranoico antisemita quale Hitler, esaltato ma non accontentato dalla folle notte dei cristalli, nel corso della quale, nel novembre 1938, in Germania, Austria e Cecoslovacchia vengono distrutti migliaia di negozi appartenenti ad ebrei, incendiate le sinagoghe, uccisi alcune centinaia di israeliti ed infine deportate diverse decine di migliaia nei campi già esistenti. Per gl’invasati nazisti occorre fare di più, sempre di più, fino alla “soluzione finale del problema ebraico”, problema che arrugginisce il cervello del leader nazista e si dipana attraverso i suoi stretti collaboratori: Himmler, Heydrich, Goebbels, Bormann, Hoss. Ed è proprio sotto il comando di Hoss e di Eichmann che il campo di Auschwitz-Birkenau diventa, tra il 1942 e il 1945, il più grande strumento di morte. Vi trovano la morte circa 1.500.00 persone: ebrei, rom, sinti, omosessuali, partigiani, prigionieri politici. Vi muoiono 200 mila bambini, alcuni affidati alle “cure” del famigerato Dr. Mengele, autore di aberranti esperimenti “scientifici” sulla loro carne viva. Muore qui anche Anna Frank, autore di un Diario che farà storia. Tra i pochissimi sopravvissuti c’è Primo Levi, prelevato dal campo di transito di Fossoli, e poi autore del libro Se questo è un uomo, nel quale tenta di ripercorrere quanto visto e patito. Anche Ondina Pateani riesce a fuggire e a divenire poi la prima staffetta partigiana. Nel giugno 1945 tornano vivi, anche se malconci, 16 reduci romani, prelevati un anno prima dal ghetto ebraico di Roma dalle SS e da fascisti italiani. Ma, come scrive Elsa Morante nel libro La Storia (ed. La biblioteca di Repubblica, pag. 349 e segg.), quando tentano di raccontare la loro storia, non sono creduti perché ritenuta inverosimile. La gente comune non sa ancora, non può capire. Molti di questi mostri nazisti, arricchitisi con la vendita dei denti d’oro estratti dai cadaveri, e di qualsiasi loro resto, alla fine della guerra riescono a fuggire lontano ed intraprendere un’altra vita sotto falso nome, certamente grazie ad alcune convivenze in Germania e in altri Paesi. Il Dr. Mengele muore, molti anni dopo, di morte naturale. Eichmann invece, rintracciato dai servizi segreti israeliani, viene prelevato e portato in Israele. Processato, è condannato a morte per impiccagione, dopo aver fin troppo evidenziato, con le sue risposte all’interrogatorio cui viene sottoposto, l’assoluta banalità del male, come scrive Hannah Arendt, filosofa e storica tedesca di religione ebraica, presente al processo. Del resto tutti i capi nazisti, sottoposti a processo dal Tribunale Militare Internazionale a Norimberga, rivelano tutta la loro mediocrità e banalità. Alle domande non rispondono adeguatamente. Mentono, non ricordano, parlano di ordini ricevuti. Undici sono condannati a morte per impiccagione, sette a pene variabili tra l’ergastolo e i dieci anni di reclusione, tre vengono addirittura assolti. Nella notte che precede l’esecuzione Goering si suicida col cianuro.
Sarà bene, a questo punto, puntualizzare alcuni fatti. Un certo antisemitismo, in parte di maniera, esiste da secoli, dal momento del deicidio, al quale, in seguito, vengono poi aggiunte altre accuse, quali l’avarizia, l’arricchimento personale, la loro presenza nei comitati d’affari, l’aver sempre tenuto stretti rapporti con la loro comunità, dimenticando che proprio il loro isolamento li costringe ad essere uniti. Questo pregiudizio si dipana nel corso dei secoli. Anche la Chiesa cattolica ha, al riguardo, alcune responsabilità. Ritornando a tempi più recenti, non si può dimenticare che i campi di sterminio sono noti alle alte sfere alleate, a Paesi neutrali come la Svizzera, persino ad organizzazioni benefiche e solidaristiche, come la Croce Rossa Internazionale. Certo, non potevano immaginare il livello di barbarie raggiunto. Nel corso del conflitto nemmeno gli Alleati, che pur sorvolano con gli aerei molti dei campi di sterminio, fanno qualcosa di concreto in loro favore, magari bombardandoli. Insomma, della strage degli ebrei molti sono, almeno moralmente, corresponsabili, seppur in misura enormemente diversa.
Per fortuna oggi la giornata del 27 gennaio viene da tutti i democratici ricordata come “Giornata della memoria”. Quanto rimasto del campo di Auschwitz-Birkenau fa parte del patrimonio dell’umanità, a memoria di quanto accaduto, e come monito per tutti gli uomini, perché sono uomini, quelli che hanno ucciso quasi 1.500.000 di innocenti. Bisogna tuttavia ammettere che «… una responsabilità collettiva di fronte alla Shoah fa parte della nostra eredità. Un fardello di cui non possiamo sbarazzarci. Soprattutto in un’Europa come quella di oggi, dove l’esclusione e il rifiuto della diversità in nome di una presunta “purezza” tornano a far presa sulle coscienze» (Lilli Gruber: La Tempesta, ed. Rizzoli, Milano, 2014, pag. 138).
Sergio Caivano