Poesie brevi sulla pagina bianca, come un timbro sospeso in alto, raccolte in un libro chiaro, con una immagine di copertina anch’essa quasi un bollo centrale lievemente ansiogeno -due mani sinistre essenziali e contratte-, un libro talmente bello anche a vedersi che non si osa scrivere note a margine col lapis, per non sciuparlo.
Poi scendi fra le parole e scopri un’anima che trema, che si sente persa nel buio della notte, che sente il peso dell’hortus conclusus, inatteso ed inevitabile. Che si rifugia nella nostalgia della bambina che è stata, quando tutto appariva fantastico perché ancora da scoprire la vita.
In un momento in cui fare Poesia sembra impossibile – diventa inevitabile, sia pur in situazioni diverse, il rimando a “e come potevamo noi cantare” di Quasimodo – nello stesso momento in cui si ammette la fragilità, il disorientamento, la paura, il bisogno di cercare il centro di sé, il desiderio di poter tornare piccina piccina in modo da essere cullata e protetta, sgorgano versi limpidi, in una sintesi di pensiero e di emozioni sapientemente filtrate: “Se solo fossi/ un poco più alta di me/ potrei stare/ spalla a spalla con un filo d’erba/ o fronte a fronte/ con la margherita nel campo”.
E ancora “Con la curva/ della nostalgia adulta/ costruirò uno scivolo/ per tornare bambina”.
Puntare al centro di sé porta a strappare ogni maschera indossata al bisogno e secondo le circostanze, rivela l’individuo nella sua nudità, e può turbare: “Quando m’incontro/ provo l’imbarazzo di chi/ non si vedeva da tempo”.
Eppure quello che resta del sé, quello che si salva dopo aver buttato le maschere, quel “residuo che resiste”, “l’ultima me che resta”, diventa il tesoro da proteggere e su cui di nuovo costruire, valorizzando il presente, l’esserci, facendo scadere il passato: “i nostri abissi sulle spalle”.
Il silenzio accompagna le pagine, amplifica il disorientamento, rende più aggressivo il suono della sirena che lo offende: “Ha respiro lento/Milano,/ e il suono della sirena/ torna ad essere/ il filo che trascina via/ l’aquilone dell’alba”.
Nell’attesa che si dilata, nelle notti che sembrano non finire mai, “una stella/ che guarda il mio cane” può aiutare a superare “ogni paura/ senza spavento”, coltivando il sogno di farsi leggera come nuvola e di affidarsi al vento: “Mi sfilaccerei sorridendo/ se fossi nuvola affidata/ alla sartoria del vento”.
Ma siccome non è dato diventare nuvola, resta l’obiettivo -sempre affascinante nonostante tutto- di reinventarsi la vita, come fa il suo cane che “gira nella durata del cerchio/ senza fare inizio né fine./ A volte il mio cane/ s’inventa la vita”.
Marisa Cecchetti
Elena Mearini, Aritmia
Marco Saya Edizioni, 2021, pp. 96, € 12,00