C’è una domanda che era un po’ una “bestia nera” di Alfred Hitchcock – il regista lo confida nella celebre intervista rilasciata a François Truffaut – una domanda che lo spettatore potrebbe porsi durante la visione di un film e che potrebbe renderlo incredulo circa il racconto a cui sta assistendo. E la domanda è: “Perché non chiama la polizia?”.
È una domanda che si ripropone quando un innocente si trova coinvolto in disegni criminali, e l’intervento della polizia potrebbe in effetti vanificare quei disegni, ma allo stesso tempo stroncare gli sviluppi più interessanti del racconto, che certo Hitchcock teneva a preservare.
È una domanda che può ronzare nella testa dello spettatore anche assistendo al film diretto da Roberto Andò dal titolo: Il bambino nascosto, tratto dal romanzo omonimo dello stesso regista.
Perché, in effetti, non chiama la polizia il protagonista della storia, un insegnante di pianoforte che si vede piombare in casa un ragazzino ricercato da criminali che vorrebbero ucciderlo per uno sgarro che il ragazzino ha commesso nei confronti della madre di un boss della camorra?
Non sarebbe forse l’unico modo per salvare se stesso e il suo ospite, visto che i criminali sospettano che il bambino possa nascondersi nel suo appartamento, e lo sorvegliano, quasi lo perquisiscono? E l’uomo, oltreché un solitario, è timido, impacciato, in apparenza inerme, e nel quartiere malfamato di Napoli in cui vive, fa la figura del vaso di coccio tra i vasi di ferro.
Eppure – malgrado i piani di difesa un po’ rocamboleschi che l’insegnante riesce a mettere in atto, appaiano un po’ inverosimili – il racconto ci persuade almeno della credibilità psicologica del suo comportamento.
Dietro un aspetto dimesso, mortificato, perfino patetico, l’insegnante nasconde nel proprio animo una vena ingenuamente sovversiva, che può ritrovarsi in effetti negli individui “diversi”, disadattati.
Se il suo incontro, il suo dialogo, con il bambino è spesso, malgrado tutto, giocoso, allegro, a volte di sfottò crudele da parte del bambino, ma comunque il frutto di una viva comunicazione, ciò può accadere anche perché l’insegnante rispecchia nel bambino un aspetto di sé: il rifiuto di piegarsi alle regole del mondo degli adulti, che, nel caso in questione, sono ciniche, mortuarie.
Nascondere il bambino è per l’uomo anche una beffa, una trasgressione, una provocazione, non soltanto nei confronti dei criminali che assediano la sua casa, ma anche direttamente nei confronti di suo fratello, un magistrato giunto ai massimi vertici della magistratura – dunque pienamente integrato nella società degli adulti – che lo tratta con aperto disprezzo e che disapprova recisamente la sua iniziativa illegale.
Ma la scelta di non chiamare la polizia ha un ulteriore significato, più evidente e più amaro: la sfiducia nei confronti dello Stato. E infatti il rapporto tra l’uomo e il bambino sfocia in un’evasione, in una fuga verso un altrove: come a dire che qui e ora non si scorge una possibilità di salvezza.
Tra un gruppo di bravi attori di contorno, l’insegnante è interpretato da Silvio Orlando, capace di renderlo nelle sue intime sfumature. Il bambino è interpretato con freschezza e momenti di incantevole autenticità dall’esordiente Giuseppe Pirozzi.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 13 novembre 2021
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