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Venere a Palazzo Te. Natura, ombra e bellezza 
di Maria Paola Forlani
16 Ottobre 2021
 

«Genitrice della stirpe di Enea, piacere di uomini e dei, Venere che trasmetti la vita…», leggiamo all’inizio del De rerum natura. È costume che i poeti epici invochino la musa chiedendole aiuto per cantare. Lucrezio, che parlerà sulla natura, si rivolge invece alla dea dell’amore. Venere accende la voluptas degli uomini, ma anche degli animali e perfino delle piante… La proliferazione della vita sulla terra è addirittura un prodotto della sua presenza ubiqua e travolgente. Venere è difatti nutrice della generazione, che all’avviso di Lucrezio, seguace delle dottrine atomistiche di Epicuro e Democrito, non è altro che rigenerazione. La sua bellezza proverbiale è di conseguenza un attributo divino legato alla sua capacità d’ispirare la bramosia che spinge gli esseri a moltiplicarsi.

Tuttavia, per gli antichi la dea aveva oltre ciò delle qualità terrificanti. Poteva ispirare tanto l’amore di sé, ovvero la vanitas, quanto l’amore universale; il desiderio sacro e quello profano.

Venere è madre e assassina, vergine e meretrice, giovane beltà e vecchia strega; dea della luce e delle ombre, dell’inganno e delle rivelazioni più sfolgoranti. Sempre accanto a lei, il suo caro figlio – oppure, secondo alcune versioni del mito, fedele tirapiedi – Eros “dolceamaro”, secondo Saffo: provocatore di piacere e infortunio in uguale misura. A partire da queste molteplici suggestioni si traccia l’itinerario proposto da Venere. Natura, ombra e bellezza, la stupenda esibizione curata da Claudia Cieri Via a Palazzo Te (fino al 12 dicembre).

Questa mostra è la terza e ultima parte di un percorso espositivo dedicato alla figura archetipica della dea dell’amore che iniziò a marzo. Il progetto costituisce una reazione simbolica ma fortemente stimolante di fronte a un quadro mondiale di crisi, di malattia e di disperazione. Nelle parole di Stefan Baia Curioni, direttore della Fondazione Palazzo Te: «Venere custodisce un senso dell’umano nel confronto con le minacce, in cui si fa evidente la sua dimensione politica». La politica è di certo un aspetto fondamentale della polisemia venerea, e la villa dei Gonzaga a Mantova, costruita tra il 1524 e il 1534 sotto la direzione di Giulio Romano, è un contesto ideale per celebrare la ricchezza iconografica ispirata dalla dea cipriota attraverso i secoli.

Naturalmente, la visita incomincia nell’antichità. Il frontespizio miniato di un’edizione manoscritta del De rerum natura, datata 1483 e appartenente alla collezione di Sisto IV, è un prestito eccezionale della Biblioteca Apostolica Vaticana. L’elogio lucreziano della Venus genitrix accoglie il visitatore e lo prepara per l’incontro con l’Afrodite velata, una statua in marmo pario con patina giallastra che Giulio Romano si portò dietro da Roma e che svolge il ruolo di divinità custode in questo sacrario di Venere che Federico II Gonzaga si fece costruire sul lago.

In questo spazio di ozio e libertà creativa, Romano, probabilmente il più geniale allievo di Raffaello, reinventò i miti classici. Una delle sue tante Veneri, quella della Sala dei Giganti, osserva con grande ansia la minaccia che si svolge contro il cosmo. Un’altra, affrescata sul soffitto nella Camera dei Venti, nasce dal mare e rammenta il più grande pittore dell’antichità, Apelle, il cui dipinto leggendario dell’Afrodite Anadiomene fu trasportato a Roma e collocato nel tempio di Venus Genetrix dentro il foro di Cesare non molto tempo dopo la morte di Lucrezio.

La Venere nascente sottolinea il rapporto stretto che attraverso la storia la dea ha avuto con la pittura. Alcuni dei gioielli più preziosi della mostra sono infatti dipinti. La Venere che benda Amore, di Tiziano, e il giudizio di Paride, un olio su rame dalla mano di Rubens, attirano giustamente l’attenzione del visitatore. Eppure altre opere come la Venere allo specchio di Carlo Caliari e Il risveglio di Venere, di Dosso Dossi, non vengono trascurate. Nelle sale dedicate alle sfumature più ominose della dea, si distacca il capolavoro di Lucas Cranach il Vecchio, Venere e Cupido con un favo di miele, nel quale il maestro tedesco avverte sui pericoli di eros. Una serie incisioni, di Dürer, Carracci e Agostino Veneziano offre degli esempi macabri del collegamento tra la figura di Venere, il grottesco e la stregoneria. Inoltre, tra gli esponenti più graziosi della Venere voluptas, tocca menzionare il Ritratto di cortigiana con scimmietta, di Paris Bordon, le cui qualità tattili farebbero arrossire lo stesso Bernard Berenson.

La visita conclude con un colpetto allo spettatore. Dalla tavola del Guercino la dea ci segnala con il dito mentre il discolo, bambino appunta l’arco contro di noi. Nel primo libro dell’Iliade, Apollo scocca delle frecce pestifere verso gli Achei, provocando una brutale epidemia. La freccia con cui Eros ci dice addio contiene piuttosto l’antidoto. Chissà che in tempi di angoscia, l’antico mito della dea della rigenerazione non riesca a portare una dose di speranza minuscola e potente quale un anticorpo.

 

M.P.F.


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