Uno dei connotati che più caratterizzano il cinema di Nanni Moretti, e il personaggio che nei suoi film si è costruito addosso, è il moralismo. Un moralismo certo consapevole di sé, spesso autoironico, ma che non risparmia per questo l’asprezza, il sarcasmo contro i costumi, i comportamenti sociali, disapprovati dall’autore.
Una novità nel suo ultimo film dal titolo Tre piani – tratto dal romanzo omonimo di Eshkol Nevo – è che, pur trattandosi di un “racconto morale”, nel quale cioè il giudizio su ciò che che è bene e ciò che è male presiede all’intero racconto, è allo stesso tempo una critica al moralismo.
Il racconto esordisce con una scena violenta: un’automobile investe, spazza via, il corpo di una donna, e poi va a schiantarsi all’interno di un appartamento. Dal parabrezza scorgiamo alla guida un ragazzo dallo sguardo allucinato e dal volto coperto di sangue.
È una violenza che contrasta con l’andamento di gran parte del racconto, nel quale predominano toni tenui, emozioni soffocate, fino a darci una sensazione di mancanza di vitalità, di depressione; contraddetta da alcuni improvvisi scoppi di aggressività.
L’incidente iniziale non risulta come una disgrazia fortuita, ma è il preannuncio, in una forma clamorosa e ancora enigmatica, di un male annidato nell’ambiente preso in esame dal racconto, che si definirà progressivamente, e che è forse il tema profondo del racconto stesso.
L’ambiente è una palazzina signorile in un quartiere di Roma, nei cui tre piani abitano i protagonisti di tre storie intrecciate fra loro: tutte coppie sposate, di età differenti, perlopiù con figli, accomunate da una stessa apparenza di rispettabilità, di buona educazione, magari di cultura.
Eppure è in agguato tra loro, e in loro, il germe della diffidenza, del sospetto reciproco, della condanna pregiudiziale degli altri; e della tendenza a erigere fra sé e chi è oggetto di tale condanna una barriera insormontabile, precludendo i rimedi del dialogo e della comprensione reciproca.
Sospetti e condanne che non dividono soltanto gli estranei, i vicini di casa; ma anche i più stretti consaguinei: i fratelli, o i padri e i figli.
E se nel racconto gli uomini sono i più intransigenti, le donne si dimostrano spesso più concilianti.
Così quando il ragazzo, l’autore dell’incidente di cui ho riferito, chiede urlando ai propri genitori – entrambi magistrati – di trovare un sistema, ricorrendo magari a un giudice loro amico, per salvarlo dalla galera, ha tutta l’apparenza di un irresponsabile, disposto anche alla corruzione per farla franca. Ma forse invece quelle parole sconsiderate sono un modo di opporsi alla barriera che il padre ha eretto fra sé e il figlio già da quando il figlio era bambino, bollandolo ora come un cretino, e imponendo alla moglie di non incontrarlo più se vuole proseguire la convivenza coniugale. E la moglie, che cede al ricatto, riuscirà faticosamente a ricostruire un rapporto con il figlio solo dopo che il marito sarà morto.
Va detto che nelle complesse storie di Tre piani non tutti gli episodi e i personaggi sono ugualmente riusciti, malgrado la bravura di gran parte degli attori. Ma la morale che unisce le tre storie, e che non balza subito evidente, ma affiora a poco a poco, risulta tanto più persuasiva perché fatti e personaggi non sembrano forzati per dimostrarla.
Sono personaggi che hanno tutti vizi e virtù, torti e ragioni, e nei loro pensieri e nei loro timori possiamo immedesimarci senza difficoltà.
Per questo il film finisce per convincerci che il male che denuncia è, almeno in una certa misura, anche dentro di noi.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 2 ottobre 2021
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