In certi film l’atmosfera è un elemento così pervasivo, che non ci sembra soltanto “avvolgere” fatti e personaggi; ci sembra che quei fatti e quei personaggi siano determinati dall’atmosfera, la concretizzino in loro.
Uno di questi casi è l’ultimo film di Paul Schrader, presentato all’ultimo festival di Venezia, uscito nelle sale italiane con il titolo: Il collezionista di carte.
Qui l’atmosfera è cupa e uniforme, e induce nei personaggi, o almeno nel protagonista, una quieta rassegnazione.
Egli ha passato otto anni in un carcere; e una volta che ne è uscita sembra che il carcere sia ancora intorno a lui: nel senso che gli ambienti in cui si svolge la sua vita – che siano la camera di un motel, le sale da gioco dei casinò o perfino una piscina all’aperto – appaiono desolati o funerei come l’ambiente della prigione.
E se l’uomo, idealmente, è ancora in un carcere è perché non vuole uscirne. Il crimine che ha commesso, apprendiamo, è aver praticato delle torture nel famigerato carcere di Abu Ghraib. E l’atto di torturare ha fatto emergere aspetti della sua personalità che forse prima di allora non sospettava di avere e dai quali si sente ancora contaminato.
Nel periodo trascorso in carcere ha appreso una tecnica: quella di tenere il conto delle carte da gioco via via che escono dal mazzo: ciò che lo rende, una volta a piede libero, uno scommettitore, o un giocatore di poker, accorto, che basa le puntate sul calcolo delle probabilità.
Confidando in questa abilità, punta a realizzare piccole vincite, all’inizio, sembra di capire, per sopravvivere piuttosto che per arricchirsi: perché la pratica del conteggio delle carte è avversata nei casinò, e perché comunque, oppresso dai suoi pesi interiori, egli sente di non poter aspirare ad alcuna forma di felicità.
Contare è una pratica che gli serve soprattutto a mantenere la calma, ad allontanare dalla mente il senso di orrore sempre latente in lui.
Ora, se il film di Schrader si limitasse alla descrizione del personaggio e degli ambienti in cui si muove, colorati della sua tinta emotiva (lui è interpretato da Oscar Isaac, che ha il volto ascetico e lo sguardo a momenti perverso che si convengono al personaggio), tale descrizione, pur ammirevolmente condotta, potrebbe generare monotonia.
Ma nel racconto sono introdotti due personaggi contrastanti: una donna, che egli incontra in un casinò, e che risveglia in lui l’impulso dell’amore; e un ragazzo, aspirante torturatore (sia pure, ai suoi occhi, a buon fine: per vendicare suo padre, morto suicida per vicissitudini simili a quelle del protagonista).
Quel ragazzo gli suggerisce l’impulso positivo ad agire, pedagogicamente, per salvarlo.
Per questo, in un film dominato dal sentimento dell’inferno, può esserci almeno una scena che allude al paradiso terrestre. È un Eden raffigurato alla maniera di Las Vegas: come un giardino di luci artificiali nel quale il protagonista incede fianco a fianco con la donna di cui si è innamorato. È una scena che può suscitare un senso d’incanto, ma che allo stesso tempo, è anch’essa luttuosa. Perché le luci brillano nella notte. E la notte si rivelerà alla lunga l’elemento vincente nel racconto.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 11 settembre 2021
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