Suddivisa in tre sezioni, la piccola silloge di Jacopo Pellegrini si apre con considerazioni di natura esistenziale e prosegue con una presa di coscienza del decadimento dei costumi, con una messa alla berlina di chi ricopre cariche di responsabilità, perché permangono “corruzione e distruzione”, senza che mai si avveri un cambiamento etico, una rivoluzione. Assente è la fiducia nella legge: “perché la giustizia finisce dove comincia la legge”; ormai è divenuta normale l’illegalità e non ci si stupisce più né ci si scandalizza, in un mondo dove “è tutto così losco, fosco e confuso/ e tutto così normale”.
Ne consegue una ricerca di distacco dal “troppo rumore di parole vane”, un bisogno di “parole garbate” non gridate, un rifugio nel silenzio, perché manca la volontà di ricerca di rapporti umani sinceri, al di là di ipocrite messe in scena; manca il dialogo tra “persone indifferenti/ con cellulari accesi e volti spenti”. Purtroppo disponiamo solo di “frasi di suoni/ incomprensibili/ lingua straniera per l’altro/ che ci rende stranieri”.
Si legge un dolore che ha segnato il passato, legato ad un “giovanile malinteso” che tuttavia non abbandona e fa sentire preclusa la vita del dopo: “e tutto il tormento del tempo/ non giace nel futuro/ ma in questo continuo passato”. Ne consegue il desiderio di essere come “foglia morta”, nella fiducia che la morte, pur se impietosa, sia perfetta! C’è attesa di parole nuove, piene, che arriveranno solo “al bordo della vita”.
Tra le sezioni si distingue quella intitolata Giuseppe, padre di un figlio non suo: “questo figlio che non conosco/ e mi appartiene”, a cui non può negare attenzioni paterne, di sollevarlo quando gli tende le braccia, di tenere la sua testa appoggiata sulla spalla, di assumersi ogni responsabilità di amore: “e se il nostro Dio/ ti abbandonerà, il pianto muto/ ovunque io sia, bagnerà la croce”.
Tuttavia questo non libera Giuseppe dal dolore pienamente umano di non essere stato presente e non gli risparmia un sottile rimprovero a Maria: “Ti ricordi la luce di Gabriele,/ le sue vesti di seta/ e il polline delle sue parole? Sai dirmi perché io non c’ero?”
Giuseppe rimane dunque in una forma di anonimato, pur nella speranza che nel cuore del bambino fiorisca il seme dell’amore per il padre terreno: “vorrei fiorisse nel cuore il seme/ di me, perché mio non è il seme/ che ti ha fiorito”.
Un “sereno anonimato” che cerca anche il poeta, consapevole che non tutte le mete terrene sono raggiungibili, ma che è già prezioso il tentativo di raggiungerle: “Forse il senso/ del cammino insieme/ è il tragitto tentato/ nell’avvicinarsi/ e non nella meta/ mancata”.
Marisa Cecchetti
Jacopo Pellegrini, In risposta al silenzio
Transeuropa, 2019, pp. 57, € 15,00