Caro Punzi, avrei voluto cominciare con tono più colloquiale e scrivere “caro Federico”; se non altro per l’amicizia e la frequentazione della stessa casa, quella radicale, che ci lega.
Ma t’assicuro che la maggiore formalità con cui mi rivolgo a te, magari perché nuora intenda, non nasce dall’esigenza di marcare una distanza emotiva quanto piuttosto dall’appoggiarmi, editorialmente parlando, al tuo cognome - di certo più noto del mio - per questo modesto esercizio di polemica.
Da addetto ai lavori (ma ti giuro che non abuserò) mi viene da dirti che a nemmeno trent’anni dalla riforma della Pubblica Sicurezza mi vengono i brividi a leggere questi tuoi passaggi:
«Il problema … è vedere la polizia che arretra, che non carica cento, massimo duecento, teppistelli appena maggiorenni, e che - al limite - non esploda neanche un colpo dopo che un agente ci ha lasciato la pelle».
E poi: «La soluzione è non permettere che dopo gli scontri i teppisti se ne tornino a casa euforici e sulle proprie gambe. La soluzione è un mese d'ospedale a riparare le ossa rotte e qualche anno di galera».
No, caro Punzi, sbagli la cura perché probabilmente sbagli pure l’analisi. La tua cura è quella di una reazione troppo a caldo e, consentimi, troppo “di pancia”; soprattutto perché con la tua parola (e non te lo puoi nascondere) stai comunicando anche a chi fa il mestiere delicatissimo, in uno stato democratico, liberale e di diritto, del “monopolista dell’uso della forza”.
Sai, amico mio, quando penso alla pistola, ai colpi che serbo nel caricatore, penso ad uno strumento di morte, definitivo e d’interruzione del dialogo, del tutto; tranne che nelle esercitazioni lo userei solo se fossi costretto da un pericolo, attuale, in essere e in svolgimento, che corre una vita, la mia o quella di qualcuno che mi è vicino.
Una morte passata, anche quella di un poliziotto, quando si è già ad “un dopo”, come dici tu, non soltanto perché lo dice la nostra legge penale, fa assomigliare “quel colpo” di cui parli più ad una vendetta che all’esercizio di un potere giustificabile.
Poi, non oso immaginare, Punzi, cosa sarebbe stata, venerdì sera, Catania se si fosse sparsa la notizia del ferimento o della morte di qualche tifoso.
Hanno dimostrato, invece, un grosso equilibrio, una grande professionalità quei reparti, quei poliziotti (alcuni dei quali conosco personalmente per averci lavorato assieme la scorsa estate o per essere passati, da allievi, per la Scuola di Piacenza) in servizio a Catania.
Per le stesse ragioni ti dico che non posso ammettere, per uno come te, che “le ossa e le gambe rotte” assurgano addirittura a soluzione; al limite evenienza negativa, sintomo patologico di un fenomeno, costo necessario (da contenere al massimo) per ripristinare una minima condizione di legalità, ma dubito fortemente che abbiano, espressione di una vis seppur legale, un qualsivoglia valore educativo o rieducativo.
Ma approfondiamo.
La cronaca delle ore che utilizzo per scriverti starebbe quasi a dimostrarci che la tua analisi è scontatamente parziale: è di oggi (Lunedì per chi leggerà) la notizia legata all’arresto di un magazziniere/custode del Catania che Venerdì sera sembra avesse introdotto all’interno e nei dintorni dello stadio mazze ed altri oggetti atti ad offendere.
Contiguità opache e clandestine tra società di calcio (o spezzoni di esse) e tifoserie, magari le più facinorose?
Forse.
Forse questo piccolo elemento di cronaca potrebbe servire a dimostrare che quel tipo di contiguità è più di una supposizione suggestiva.
Certo è alquanto scandaloso che, invece, il connubio stretto tra società di calcio e politica sia non solo realtà ma fatto, addirittura, accettato. A Catania, lo stadio ospita addirittura l’Assessorato allo Sport ed è solo il paradigma di un paese dove si contano sulle dita di una mano gli stadi di proprietà delle stesse imprese calcistiche.
La normalità, invece, in Italia è, invece, quella che organizzazioni che si pongono fini di profitto s’ingegnino ad utilizzare strutture di proprietà comunale, magari pure a prezzi stracciati (sicuramente non di mercato).
Un triangolo, insomma, i cui termini, profitto, consenso (politico ed economico), assetti societari ed istituzionali – proprio perché adulterati dall’assenza di una reale logica di mercato – possono essere agiti da soggetti la cui tentazione, magari contingente, può essere quella di tollerare (se non di cavalcare) la violenza di alcune frange di tifosi, sol perché, in definitiva, i costi di queste violenze le paga, per intero, la collettività comunale o nazionale.
Caro Punzi, non puoi sottacere che – dopo la tragedia dell’Heysel, qualche altro grave incidente interno e dopo la pessima figura fatta dagli hooligans durante i campionati del mondo di calcio del 1990 – il modello inglese è stato vincente non solo perché ha introdotto una normazione penale e processuale penale, peraltro in un regime di common-law, eccezionale e di emergenza (di cui peraltro è già abbondante il nostro ordinamento perlomeno dagli anni settanta in poi). È stato vincente perché ha fatto una cosa semplicissima: ha riconosciuto prevalente nel fenomeno calcio degli anni a cavallo del 2000 l’aspetto dello spettacolo (che come tale è capace di generare introiti ingentissimi) più che quello, di vago interesse pubblico, puramente sportivo-educativo; con ciò ha via via traslato i costi della “security” dal Regno alle imprese calcistiche.
Per non essere troppo prolisso i decreti Pisanu emanati dal 2003 al 2005 – come al solito sotto la spinta della normativa europea – oltre a fornire più strumenti all’intervento repressivo, tra timidezze ed insufficienze, andavano verso quella direzione, anglosassone, di “privatizzazione” anche dei costi della sicurezza dell’evento calcistico (come d’altronde è pacifico per altri settori di spettacolo pubblico di massa: grandi concerti, multisala, eventi teatrali ecc. ecc.).
Gli assi portanti di quei decreti che impegnavano soprattutto gli enti proprietari degli stadi e le società di calcio erano:
- attività di ticketing nominativo (separato per tifosi ospiti e “casalinghi”) con lo sviluppo di banche dati e controllo elettronico (accessibili al bisogno dalle forze di polizia);
- adeguamento infrastrutturale degli stadi ai fini del controllo privatizzato ed indiretto (tornelli per l’ingresso a selezione individuale, separatori fissi e mobili, posti numerati, sistemi di videosorveglianza);
- progressiva creazione di squadre di steward a carico delle società di calcio che potessero agire all’interno stadio dai tornelli in poi.
Come potrai intuire, caro Punzi, era un percorso di rispetto delle regole del mercato, di impegni e di legalità che veniva dettato, non scontatamente solo a quelli che tu definisci teppistelli nemmeno maggiorenni, ma ai “soggetti forti” del foro calcistico.
Ma l’inghippo – o l’inganno se preferisci – era dietro l’angolo o – sempre se preferisci – annidato nella stessa normativa che ha preso il nome del precedente titolare del dicastero del Viminale. Quei decreti, infatti, prevedevano, dopo aver individuato un principio e quelle direttrici portanti – di cui dicevo prima – di intervento in attuazione del principio stesso, un sistema complesso di deroghe e proroghe, per lo più affidate alle Prefetture della Repubblica, rispetto al completo adempimento della stessa normativa.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche i tuoi. La crisi dello stato di diritto non è (solo) quella dovuta all’impunità dei teppistelli catanesi e di quelli sparsi per tutta l’Italia ma quella, ben più grave, di un “sistema-calcio” che ha, a qualche anno di distanza e dopo l’operato di due governi, pochissimi stadi (forse nessuno) e società di calcio integralmente adempienti rispetto alla normativa Pisanu, grazie proprio a questo sistema di proroghe e deroghe di cui si è ampiamente abusato (per il quieto vivere locale e per quel coacervo di interessi non troppo dicibili di cui ti dicevo).
Catania era, purtroppo, uno di questi; forse la conferma che la soluzione, non emergenziale e nel lungo periodo (da visionario se vuoi), al problema non è quella di chi ha più mezzi e chi “vince” negli scontri di piazza tra forze di polizia e hooligans e nemmeno dell’immagine che dà una polizia che arretra, se questo serve, tecnicamente, ad evitare più danni, più feriti e più morti.
Chiedo troppo ad un radicale, autentico, come te?
Michele Rana
(da Notizie radicali, 6 febbraio 2007)