Costruito in pietra forte, il Palazzo del Capitano del Popolo si erge simile a una fortezza, ed è rifinito, come l’alta torre a cui si appoggia, con merlatura guelfa. La costruzione, altissima e austera, risale al 1255, come riporta un’epigrafe posta sui muri esterni.
Quando nel 1250 venne istituita la carica del Capitano del Popolo, si pensò a una sede che fosse sicura dalle sommosse sia dei magnati, la classe dei mercanti più nobili, che dei popolani. Ma dove collocare l’edificio? La scelta cadde su un’area centrale, che fosse vicina alle zone di mercato e ben visibile dal polo religioso, costituito dal Battistero e dalla Cattedrale di Santa Reparata. Per tale esigenza furono acquistate molte case-torri, esattamente 11 e molti terreni. Si iniziò così la costruzione dell’edificio che fu appoggiato a una grande torre, detta la “Volognana”, dal nome di Geri da Volognano, uno dei primi carcerati che vi furono rinchiusi. La Torre apparteneva ai Boscoli, una famiglia ghibellina che, esiliata nel 1268, fu privata dei suoi beni, secondo il costume del tempo. La torre, diventata parte di un edificio pubblico, ha conservato fino a oggi la sua antica altezza di 57 metri. In cima alla torre è collocata una banderuola con il leone fiorentino e sulla sua sommità si trova la campana, detta dai fiorentini, la “Montanina”, sottratta dal castello di Montale, nel pistoiese. Essa suonava quando si dovevano chiamare a raccolta i cittadini in caso di guerra, di assedio, o in caso di lotte tra le fazioni politiche dei Guelfi e dei Ghibellini. La “Montanina” è davvero parte integrante della storia di Firenze. Quando il Bargello era il luogo dove si amministrava la giustizia, accompagnava, col suo suono, l’ultimo viaggio dei condannati a morte. L’11 agosto del 1944 i suoi rintocchi chiamarono i fiorentini alla rivolta contro l’occupante nazista; fu suonata per l’alluvione nel 1966, e pochi anni fa ha suonato per festeggiare il terzo millennio. Molti fiorentini, ancora oggi, la confondono con la “Martinella” di Palazzo Vecchio che invece accompagnava le bandiere e gli stendardi in battaglia, e chiamava i cittadini a prendere le armi.
Il Bargello si affaccia su via Ghibellina. Nel 1260, narra il Malispini (1220-1290 ca.) in Storia fiorentina: Partiti i Guelfi, feciono podestà di Firenze Guido Novello, che tenea ragione nel palazzo di Sant’Apollinare, e fece fare la porta Ghibellina… nel cerchio delle mura del 1175 …e aprire quella via di fuori, a ciò che per quella via che rispondesse al palagio, potesse avere l’entrata e l’escita… verso i suoi castelli del Casentino. Fu, ed è, la via Ghibellina che si percorre ancora oggi. Questa strada dunque, che anticamente terminava con la cerchia delle mura del XII secolo, all’altezza dell’odierno Teatro Verdi, si chiamava via del Palagio del Podestà. Nel 1261, Guido Novello la chiamò “Porta Ghibellina” in onore della vittoria riportata dai ghibellini nella battaglia di Montaperti, combattuta nel 1260, in cui i ghibellini di Siena e gli esuli di Firenze, tra cui Farinata degli Uberti, sconfissero i guelfi fiorentini. Dirà Dante:
Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio.
(Inferno, Canto X, 85)
In seguito tale denominazione passò alla strada e, nel 1862, venne estesa a tutta la sua lunghezza. La strada, in passato, era percorsa per un lungo tratto dai condannati a morte che, dal Bargello venivano accompagnati al Carcere delle Stinche, che sorgeva dove si trova attualmente il Teatro Verdi e che, passando poi per via San Giuseppe, giungevano alla “Porta alla Giustizia”, presso la Torre della Zecca, dove li aspettava la forca per le esecuzioni. Per dare conforto ai condannati furono eretti lungo la strada una serie di tabernacoli come quello posto all’angolo tra via Ghibellina e via Isola delle Stinche. Il tabernacolo, opera di Giovanni da San Giovanni (1592-1636), raffigura il senatore Serristori, committente dell’opera che, alla presenza di Gesù Cristo e di due magistrati, paga il riscatto per un carcerato, adempiendo così a una delle sette opere di misericordia. Il termine Stinche, tra le molte storie che si raccontano, è riferibile a un episodio del XVI secolo, una rivolta scoppiata al Castello delle Stinche, in località Panzano, nella vicina zona del Chianti, proprietà dei Cavalcanti. Tutti gli abitanti del Castello furono arrestati e portati nelle prigioni che si chiamarono Stinche, probabilmente dal loro nome.
Il nucleo originale del Bargello, risalente al 1255 e costruito, secondo il Vasari (1511-1574), su disegno di un certo Lapo, padre di Arnolfo di Cambio, nacque per volontà del governo del Primo Popolo, per essere destinato a residenza del Capitano del Popolo. Dal 1271, il Palazzo fu sede del Podestà, un Magistrato forestiero, incaricato dal Governo a reggere la città. Nel XVI secolo divenne sede del Consiglio di Giustizia per le udienze dei Giudici della Ruota (cosiddetta, perché i giudici erano chiamati a rotazione tra i laureati in legge), una magistratura deputata alla risoluzione delle cause civili voluta da Pier Soderini e rimasta in vigore fino al 1841, finché, subentrato il Capitano di Piazza, detto il “Bargello” (1574), ospitò le carceri cittadine. L’edificio, mostra nella struttura, la sua appartenenza al tipo dei castelli di difesa con mura di macigno e marcapiani di pietra serena e presenta la tipologia delle torri come testimoniano le strutture a sbalzo sulle pareti. Il Palazzo è nell’insieme uno scrigno di memoria storico-artistica e architettonica. Nel cortile, edificato nel tredicesimo secolo, sono esposti lungo il maestoso muro gli stemmi dei Podestà fiorentini e tra questi: lo stemma di Jacopo Boscoli, sormontato da un cimiero con un grifo nascente, affiancato dalle lettere iniziali del suo nome, lo stemma di Ilario Sanguinacci, sormontato da un cimiero con due ali e una testa e collo di drago, affiancato dalle lettere iniziali del suo nome e dalle insegne dei Sestieri di Firenze: San Pancrazio, Oltrarno, San Piero Scheraggio, Borgo Santi Apostoli, Porta del Duomo, Battistero di San Giovanni, Porta San Piero.
Il Bargello, abbandonato per molto tempo, ha visto cambiare la sua struttura originaria e la sua funzione. Quando nel 1786, il Granduca Pietro Leopoldo abolì la pena di morte, gli strumenti di tortura furono bruciati proprio nel cortile del Bargello dove, in sostituzione del patibolo, fu costruito il pozzo che oggi ammiriamo. Le prigioni rimasero in uso fino al 1857, quando furono trasferite nell’ex convento delle Murate. A partire da questa data, cominciò il restauro dell’edificio, compiuto dall’architetto Francesco Mazzei. La loggia fu restaurata e il cortile modificato; fu inoltre previsto che il cortile documentasse gli stemmi dei quattro quartieri della città e delle sedici compagnie armate del popolo e che si affiancassero agli stemmi pittorici stemmi di pietra, provenienti da vari monumenti toscani.
Il Museo del Bargello
A partire dal 1859 il palazzo è diventato Museo Nazionale, tra i più importanti del mondo e raccoglie opere di arte varia divise in più sale, disposte su più piani. Le opere e i manufatti in esse conservati, testimoniano l’arte che ha segnato la vita di Firenze, specialmente nel Rinascimento, e la cultura di altri popoli. L’elevato numero delle opere esposte, ci obbliga a una scelta, e solo una visita diretta può consentire una conoscenza accurata di ogni elemento.
Al piano terreno la Sala di Michelangelo ospita opere di grande pregio e tra queste: il Bacco ebbro, il Bruto, il Tondo Pitti e il David-Apollo, di Michelangelo (1475-1564). Il doppio nome di David-Apollo è dovuto a due diverse teorie, di cui una del Vasari e l’altra di un inventore mediceo, incertezza dovuta forse al non finito dell’opera; il Narciso, il Ganimede, il Perseo, il Busto di Cosimo I di Benvenuto Cellini (1500-1571); l’Onore che vince l’inganno, ispirato dalla vittoria di Firenze su Pisa, di Vincenzo Danti (1530-1576) e il Mercurio alato o volante del Giambologna (1529-1608).
L’elegante scalone, conduce all’ampio verone, posto al primo piano, la cui loggia è decorata con affreschi in stile medioevale, di Gaetano Bianchi (1819-1892). Tra i tanti elementi, si ammirano: un pavone, un gufo e un tacchino, provenienti dalla grotta della Villa Medicea di Castello e che rivelano la tendenza del Giambologna al naturalismo; il tacchino è particolarmente interessante, perché mostra al suo interno l’armatura. L’antico Salone del Consiglio Generale che, all’epoca del Bargello, era utilizzato come un moderno tribunale, ospita alcune opere di Donatello (1386-1466) e tra queste: il David in marmo, scolpito dall’artista, poco più che ventenne, simbolo di libertà della Repubblica fiorentina, il David in bronzo, opera della piena maturità dell’artista, simbolo del trionfo della ragione sull’irrazionalità e della libertà repubblicana dopo la seconda cacciata dei Medici (colpisce la testa di Golia, derivata forse da un cammeo delle raccolte medicee), il S. Giorgio, commissionato dall’arte dei Corazzai e degli Spadai per una nicchia di Orsanmichele. Altre opere decorano la sala, come: il bassorilievo marmoreo della Madonna Panciatichi di Desiderio da Settignano (1430-1464) e la dolce Madonna della mela, in terracotta invetriata di Luca della Robbia (1400-1481).
Adiacente alla torre “Volognana”, si trova la Sala islamica, dove sono esposti: tappeti, stoffe, gioielli e oggetti metallici che ci raccontano la preziosa e raffinata manifattura dei popoli di appartenenza. Interessante è la sala che ospita la prestigiosa “Collezione Carrand”. Costruita durante i lavori di ampliamento dell’edificio, fra il 1260 e il 1280, essa fu denominata fino al 1888 “Sala del Duca d'Atene”, cui appartiene lo stemma degli affreschi. Da questa data, nella sala è esposta una parte dei tremila oggetti donati dall’antiquario francese Louis Carrand: posate, boccali, fibbie, oggetti indiani, vetri dorati paleocristiani, cristalli, smalti spagnoli, dipinti, orologi, oreficerie, una sfera armillare del Cinquecento, cammei, amuleti, oggetti franchi e longobardi e fra tutti la cosiddetta Placca d’elmo di Agilulfo, il pezzo più famoso e rappresentativo dell’oreficeria longobarda, in bronzo dorato, esposto insieme a preziosi reperti di oreficeria bizantina.
Accanto alla Sala islamica, la Cappella di Santa Maria Maddalena con annessa la Sacrestia, ricorda il luogo dove i condannati a morte trascorrevano le loro ultime ore, assistiti dalla Compagnia dei Neri, composta da cittadini che si dedicavano a questo ufficio, alternandosi nelle preghiere; non a caso si tratta del palazzo dove in nome della giustizia si praticava la tortura e si condannava a morte. Nella cappella, gli affreschi, risalenti al 1340 ca., opera di artisti della bottega di Giotto, presentano le storie di S. Maria Maddalena, del Battista e di S. Maria Egiziaca, una monaca, nata ad Alessandria d’Egitto nel 344 ca. e morta nel 421 ca., che da prostituta divenne santa, venerata sia dalla Chiesa cattolica che da quella ortodossa e copta. La sua storia si veste di leggenda. Fuggita dalla propria casa all’età di dodici anni, si guadagnò da vivere, facendo la prostituta. Pentitasi, rinunciò alla vita dissoluta, si immerse nelle acque del Giordano per purificarsi e ricevuta la comunione eucaristica, iniziò un cammino di penitenza fatta di privazioni. Un giorno la incontrò Zosimo, di un monastero palestinese e a lui Maria raccontò le vicissitudini della sua vita. Zosimo si allontanò con la promessa che sarebbe tornato l’anno dopo; ritornò, ma la trovò morta. C’è chi vuole la sua tomba scavata dagli artigli di un leone. È patrona delle prostitute pentite.
Tra gli affreschi che decorano la sala, c’è anche un profilo di Dante, tradizionalmente attribuito a Giotto (o di scuola giottesca).
La Sala degli Avori raccoglie circa trecento pezzi, appartenenti a un periodo che va dal V al XVII secolo: crocifissi, manici di posate e di pugnali, pettini, specchi, scacchi, cofanetti, statuine, e due interessanti mosaici portatili. La Sala Bruzzichelli è allestita con mobili cinquecenteschi, donati nel 1983 dall’antiquario omonimo. La Sala delle Maioliche ospita una straordinaria produzione di maioliche di Urbino, Siena, Orvieto e Firenze.
Il secondo piano raccoglie le meravigliose terrecotte di Giovanni della Robbia (1469-1529) e l’Armeria, con pezzi delle collezioni medicee, urbinate, Carrand e Ressman, tra cui: una sella da torneo del Quattrocento in avorio, una sella alla turca in argento con turchesi e parti di un’armatura di Guidubaldo della Rovere, duca d’Urbino.
Seguono la Sala di Andrea della Robbia (1389-1482) e la Sala dei Bronzetti che conserva una delle maggiori collezioni di questo tipo, esistente in Italia: oggetti, come calamai e lanterne, opere uniche o copie di sculture antiche e moderne. Ma, meraviglia tra le meraviglie, è la Sala della scultura del secondo Quattrocento, detta del Verrocchio (1437-1488), dove si possono ammirare preziose opere dell’artista: il David bronzeo, la raffinata e delicata Dama col Mazzolino di primule, in marmo, il Busto di Piero di Lorenzo dei Medici in terracotta; e inoltre: il Busto di giovane guerriero con la corazza decorata, di Antonio del Pollaiolo (1431-1498); il Busto di Battista Sforza, di Francesco Laurana (1430-1502), numerose sculture e bassorilievi di Mino da Fiesole (1429-1484) e di Antonio Rossellino (1427-1479).
Nella Sala della Scultura barocca e del Medagliere è collocata una raccolta di più di mille esemplari di monete e medaglie, certamente la più importante al mondo per consistenza e qualità degli esemplari, che riproducono una galleria di personaggi e immagini di Firenze attraverso i secoli, un percorso di storia sulla vita della città e dei suoi protagonisti.
Il museo è nell’insieme un libro aperto sul mondo, dato che, gli arredi e i manufatti che espone, grazie ai ritrovamenti, alle committenze, ai collezionisti, alle donazioni e alle raccolte, ci consentono di conoscere la storia di Firenze e di altri popoli.
Quella del Bargello è la storia di uno dei più antichi palazzi pubblici fiorentini. La sua trasformazione da Palazzo del Capitano del Popolo, a prigione, all’attuale Museo Nazionale, risulta il frutto di una lunga e travagliata genesi. Il Bargello è divenuto simbolo di libertà da quando furono bruciati al suo interno gli strumenti di tortura, atto che sancì l’abrogazione della pena di morte. Nel cortile della Dogana di Palazzo Vecchio, è stata posta una lapide marmorea commemorativa che riproduce un testo redatto subito dopo la promulgazione della legge, avvenuta nel dicembre del 1786 che faceva della Toscana, il primo Stato al mondo ad aver abolito la pena di morte. L’epigrafe, composta dal georgofilo Giuseppe Pelli Bencivenni, su richiesta di Francesco Seratti che aveva curato la stesura finale della Riforma, così recita:
Per memoria della Toscana felicità quando Pietro Leopoldo con legge de’ 30 novembre 1786 la pena di morte, l’infamia, la tortura, ogni delitto di lesa maestà colla confiscazione delle sostanze cancellò per primo in Europa dalla vecchia legislazione.
Il Comune di Firenze ha voluto che l’epigrafe fosse posta nel cortile della Dogana di Palazzo della Signoria, in occasione della prima ricorrenza della festa commemorativa istituita dalla Regione toscana il 30 novembre 2000; ma alla fine del Settecento si era pensato di porre la lapide all’esterno del Bargello, nel punto in cui avveniva il supplizio della fune, per indicare la fine di quel crudele sistema penale.
La legge di Pietro Leopoldo chiudeva un periodo di barbarie e iniziava un nuova storia dell’umanità. La riforma che portò il Granduca a rivedere il rapporto tra delitto e pena trovava fondamento in parte nel Codice Giuseppino in parte nelle concezioni filosofiche dell'Illuminismo, sua fonte principale, ma si ispirava essenzialmente al trattato politico di Cesare Beccaria (1738-1794) Dei delitti e delle pene, che l’autore ebbe la possibilità di pubblicare per la prima volta, a Livorno, nel 1764. Dal 2000, il Consiglio Regionale della Toscana ha approvato una legge per celebrare, il 30 novembre, la Festa della Regione Toscana, una festa che rende omaggio a tutti coloro che credono nei valori della pace, della giustizia e della libertà; una festa per educare alla conoscenza storica della propria città; per riproporre un momento tra i più importanti della storia moderna e per aggregare i toscani attorno a una data di grande significato civile e ricordare loro che i loro antenati sono stati i primi ad aver abolito la pena di morte.
Quello di Pietro Leopoldo è uno degli atti fondanti di questa terra e dello Stato cui appartiene (Mario Luzi).
Una festa e una targa dunque per ricordare l’origine di quel lungo cammino che ha visto la Toscana e i suoi governanti del passato svolgere un ruolo da protagonisti per sancire i diritti dell’uomo; un cammino che continua come “La Carta dei diritti dell’Unione Europea” del 2000 che ribadisce il diritto di ogni uomo a non essere condannato a morte da altri uomini.
Il Bargello lascia nel visitatore stupore e suggestione. Quanti personaggi hanno lasciato le loro orme lungo lo scalone “goticheggiante”; quante vicissitudini in quel luogo, un tempo sinistro, perché luogo di tortura e di morte; quanti condannati hanno patito il supplizio nelle sue segrete. Gli stemmi attaccati lungo il maestoso muro, raccontano storie di famiglie importanti, di personaggi e di avvenimenti. Ma il pozzo, posto al centro del cortile, dove una volta si ergeva il patibolo, ci dice che quel tempo è ormai superato e un percorso ricco di monumenti ci accompagna verso l’uscita. Le finestre, all’esterno, richiamano un uso antico molto macabro, quello di appendervi i condannati, dopo l’esecuzione, a monito del popolo.
Siamo in Piazza San Firenze. La Piazza prende il nome dal Complesso di San Filippo Neri, detto anche di San Firenze da una storpiatura del nome di un edificio preesistente dedicato a San Fiorenzo. Seguendo via dei Gondi, cosiddetta dal palazzo che le dà il nome e che si erge lateralmente ad essa, entriamo in Piazza della Signoria, cuore politico della Firenze medievale.
Anna Lanzetta*
* Dal mio libro “Firenze nel cuore”. Visitare la Firenze medievale per scoprire la Firenze di oggi. Il Centro storico, Morgana Edizioni, 2012.