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Marisa Cecchetti. “Nel nome del figlio” di Bjὅrn Larsson
21 Giugno 2021
 

Bjὅrn Larsson

Nel nome del figlio

Traduzione dallo Svedese di Alessandra Scali

Iperborea 2021, pp. 224, € 16,50

 

Esiste un destino già scritto per ognuno di noi? In che misura siamo liberi di scegliere chi siamo e chi diventare? Quanto sono corrispondenti alla realtà i nostri ricordi? Perché certe situazioni rimangono impresse e altre no?

Björn Larsson, svedese, docente di letteratura francese all’università di Lund, filologo, traduttore, scrittore e appassionato velista, nel suo ultimo romanzo Nel nome del figlio, si pone una serie di interrogativi mentre ricostruisce la figura del padre che ha perso all’età di sette anni, annegato nel lago Nedre Vἅtter, alla fine di una gara di pesca nell’agosto del 1961. Morirono otto persone, sei adulti e due bambini, che avevano attraversato il lago su una piccola barca a motore stracarica. Il figlio, che era presente, non aveva accettato di partire con loro. Al momento della ricerca i vestiti di Berndt Larsson, 29 anni, furono trovati a riva. Esperto sommozzatore, senza dubbio si era salvato, si era liberato dei vestiti ed era tornato in acqua per salvare i bambini. Inutilmente.

Che cosa sarebbe potuto accadere se anche il figlio fosse salito?

Il tormento più grande – l’autore parla sempre di sé in terza persona, chiamandosi il figlio – è il ricordo di non aver pianto alla morte del padre, di essersi sforzato, ma le lacrime non venivano. Peggiore ancora quello di aver confessato ad un amico che la morte del padre gli portava un senso di liberazione. Confessione che arrivò alla madre, indirettamente, a suggellare la vergogna e il disamore.

Non è stato facile mettere per scritto quella fase della sua vita, ha atteso tanti anni prima di scrivere del padre ed in realtà Larsson parla della propria vita in relazione al padre. Di lui ha davvero pochi ricordi, “sei ricordi, una decina di foto e qualche informazione frammentaria”. Pochi anche della madre. In quei sette anni e mezzo riconosce di essere stato quasi un orfano. E ricorda di aver viaggiato con la sorellina, soli, in treno, per andare dai nonni.

Dei genitori ricorda i litigi, le settimanali ubriacature del padre -alto l’uso di alcolici nei paesi del nord- ma soprattutto non lo abbandona a distanza di tanto tempo il dolore di una sera in cui, rimasto senza soldi, il padre spaccò il suo salvadanaio per bere. Da allora si chiuse in se stesso, conservando quasi niente di lui. È diventata una sua caratteristica la tendenza a mantenere le distanze.

Con questo presupposto si potrebbe pensare ad una rimozione ad un distacco, invece Larsson analizza la figura paterna, cercando di trovare in sé qualche forma di continuità, di somiglianza, di recuperare le radici. Non dà risposte certe, sono solo ipotesi, anche se riconosce che la curiosità è un elemento che li contraddistingue entrambi, come la tendenza a non adeguarsi, bensì a scegliere la propria vita: si tratta di quello “spirito di iniziativa orientato al futuro” presente anche nella sua stessa figlia.

Il padre amava la filosofia, la geologia, ha brevettato invenzioni, ha cercato giacimenti di uranio, ma soprattutto non ha obbedito al nonno che lo voleva boscaiolo, che non gli ha permesso di continuare gli studi, ed ha scelto di fare l’elettricista.

Il figlio, che ha voluto laurearsi in Francese perché da piccolo colpito dalla canzone Milord cantata da Edith Piaf, che a 16 anni è stato a studiare negli USA grazie ad una borsa di studio, che ha vissuto in barca a vela per anni -velista prudente e non dedito all’alcool- insieme alla sua compagna, quanto è stato influenzato dal padre? È proprio vero che bisogna sapere chi siamo per sapere dove andiamo? Sarà per questo spirito di giustizia e ribellione ereditati per via paterna che il figlio si è fatto due volte il carcere perché renitente alla leva? Ed ha scelto di vivere libero da legacci, finché ha potuto.

Libro confessione, che appare oggettivo e onesto, che rimane fondamentalmente un percorso attraverso la vita dell’Autore, col recupero di emozioni forti, di letture formative, di riflessioni sulla esistenza umana, sul significato del ricordo – si rimane vivi finché qualcuno si ricorda di noi? Ed a chi serve, a chi se ne è andato o a chi resta?

Sul senso della memoria l’autore cita Jean-Yves e Marc Tadié: “tra il ricordo e la realtà passata non esiste, né mai potrebbe esistere, una corrispondenza precisa… la memoria si basa in gran parte sulla fantasia: non perché il ricordo sia sempre frutto della nostra immaginazione, ossia equiparabile a una creazione letteraria, ma perché lo costruiamo a partire da come immaginiamo che una certa cosa sia successa e come l’abbiamo vissuta. E questo in relazione, non tanto a chi eravamo al momento dell’accaduto quanto a chi siamo nel momento in cui ricordiamo. Se cercassimo di ricordare tutto non ci resterebbe tempo per vivere”.

Sicuramente la letteratura ci aiuta a dissipare qualche nebbia, anche qualche rimorso, sempre che il figlio ne sia stato perseguitato.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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