A volte può capire di predisporsi alla visione di un film con un senso di stanchezza preventiva. Si può avere l’impressione che i fatti raccontati da quel film ci siano già stati raccontati da tanti altri film e quasi allo stesso modo. E tale pregiudizio può impedirci di apprezzare le novità, piccole o grandi, che quel film introduce in un percorso narrativo che può sembrarci risaputo.
Per esempio il film Monster – un film americano, di produzione indipendente, diretto da Anthony Mandler, presentato al Sundance Film Festival e ora uscito su Netflix – almeno a prima vista svolge il topos, il tema ricorrente, dell’innocente messo in prigione e rinviato a giudizio in un processo dove tutto sembra congiurare perché sia condannato.
L’imputato in questione è un ragazzo quasi maggiorenne, un nero, di buona famiglia, che vive nel quartiere di Harlem; accusato di aver fatto da palo durante la rapina in un emporio, sfociata nell’omicidio del proprietario.
Il punto di vista adottato dal film per raccontare il caso non è inedito, ma si rivela almeno emotivamente efficace, perché riesce a indurre l’immedesimazione dello spettatore. Tutto il film è idealmente una “soggettiva” dell’imputato.
Ci dà l’impressione, insomma, di farci vedere con i suoi occhi i suoi stessi genitori – in particolare il padre – che lo guardano con diffidenza, evidentemente tutt’altro che certi della sua innocenza; l’avvocato d’ufficio e il pubblico ministero che prima del processo confabulano in disparte, evidentemente concordando i termini di una condanna che entrambi sembrano ritenere inevitabile; e, nell’aula giudiziaria, i membri della giuria, dagli sguardi così freddi, così imperscrutabili, che ci sembrano quasi disumani.
Quando poi il giudice avvia la prima udienza chiedendo cordialmente agli avvocati e al pubblico ministero come abbiano trascorso il weekend, si ha l’impressione che siano quasi i componenti di un club, di un circolo esclusivo, infinitamente lontano dalla realtà dell’imputato, e dai quali egli non potrà aspettarsi nessuna empatia, nessuna comprensione.
Si suggerisce che pesa sull’imputato un pregiudizio razzista, anche se poi il giudice stesso è un nero, e i componenti della giuria appartengono a varie etnie.
Il seguito del racconto, tutt’altro che scontato, finirà per contraddire tale premessa.
E il filtro soggettivo servirà a introdurre i ricordi dell’imputato, e a spiegare come lui, figlio di un pubblicitario, studente di una prestigiosa scuola di cinema, abbia stretto amicizia con certi delinquenti del suo quartiere. Forse è stato proprio il cinema il movente per cui li ha avvicinati. Aspirante regista, ha voluto riprenderli con la sua telecamera, per documentarsi su di loro, ma forse anche affascinato da loro, essendo in effetti tradizionalmente il cinema affascinato dalla criminalità. Amicizie che nel suo caso si riveleranno fatali.
Il vero colpo di genio di Monster è nel finale, che non vi rivelerò, ma dove si dimostra – contro i giustizialisti e contro chiunque abbia una visione schematica della realtà – che si può essere da un punto di vista penale colpevoli, eppure essere in fondo innocenti; e che uno spettatore onesto può desiderare l’assoluzione di un colpevole. Non entro in dettagli, ma vedere per credere.
Si tratta di un film interessante – tratto un romanzo best-seller di Walter Dean Myers, edito in Italia da Marcos y Marcos; sorretto da alcuni bravi attori, tra i quali spicca il protagonista Kevin Harrison jr.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 12 giugno 2021
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