Quasi tutti sanno chi era Gino Bartali, il grande campione fiorentino di ciclismo vincitore di tre Giri d’Italia e di due Tours de France. Quasi tutti ricordano la sua rivalità con Fausto Coppi, il campionissimo, a sua volta vincitore di cinque Giri d’Italia e di due Tours de France. Gli italiani dell’immediato dopoguerra si dividevano in “coppiani” e “bartaliani”. In effetti i due campioni erano molto diversi sotto molti aspetti. Bartali era molto religioso, votava per la DC, mentre Coppi era laico, si diceva che preferiva il PSI. Tra i due, nonostante le differenze, sorse una sincera amicizia, immortalata dal passaggio della borraccia nel corso di una tappa alpina del Tour e, poi, dalla loro partecipazione congiunta ad alcune trasmissioni televisive.
Non è invece molto noto un fatto di rilievo risalente al 1948. Il 14 luglio di quell’anno, un certo Antonio Pallante, estremista di destra non legato a partiti, esplose alcuni colpi di pistola sul segretario del PCI Palmiro Togliatti, ferendolo gravemente. L’Italia entrò in crisi. Molti militanti comunisti fremevano ed erano pronti all’insurrezione. Gravi disordini si erano già verificati. Si temeva una guerra civile. Gino Bartali era in Francia, stava disputando il Tour ma era distanziato dalla maglia gialla, Luison Bobet, di ventidue minuti. La sera, ormai è quasi certo, ci fu una telefonata impensabile. Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi telefonò a Bartali pregandolo di far qualcosa di grande per tentare di attenuare la pericolosa esasperazione che c’era in Italia. In quegli anni il ciclismo era lo sport maggiormente seguito, più del calcio. Il giorno dopo c’era la tappa nella quale si doveva scalare l’Izoard, la montagna più impervia del Tour. Gino Bartali si scatenò sin dalle prime rampe, vinse la tappa distanziando Bobet di venti minuti. Un’impresa leggendaria, la sua, accolta in Italia con entusiasmo. E forse, assieme al messaggio di Togliatti dall’ospedale, contribuì a sedare gli animi. Poi Bartali, con le tappe finali, vinse il Tour.
Ancora meno noto è quanto fece Bartali nel 1943-1944. In quel triste periodo era in corso la caccia agli ebrei. Molti di questi, per sfuggire alla cattura e all’invio nei campi di sterminio tedeschi, si erano rifugiati presso centri ecclesiastici. Occorreva far avere loro documenti falsi, con nome e cognome mutati, che attestassero la nazionalità italiana e la religione cattolica. Ma come raggiungere i vari centri in cui si trovavano nascosti? La cosa era molto pericolosa. Gino Bartali corse il rischio: diverse volte nascose nella canna della sua bicicletta i documenti per portarli agli ebrei. Se l’avessero fermato i tedeschi o i fascisti, la giustificazione gli tornava facile: si stava allenando. Tuttavia ignorava il loro atteggiamento. Difatti, in una occasione, si spinse fino ad un convento di Assisi, ove erano tenuti nascosti molti bambini ebrei. Venne fermato da un ufficiale tedesco. Con fare arrogante chiese: “Cosa fare qui a 200 km da Firenze?”. Bartali rispose che si stava allenando, ma il tedesco non si convinse. A salvarlo involontariamente fu una camicia nera che, riconoscendolo, disse: “Ma questo è Bartali, è un campione, ha vinto il Giro d’Italia!”.
Di queste meritorie imprese, anche a guerra conclusa, Gino Bartali non ha mai detto una parola, non si è mai vantato. Del resto, il suo silenzio al merito si spiega col suo carattere, col suo modo di pensare. “Se fai del bene, lo fai perché ti senti di farlo, non devi mai vantartene”. Questo suo silenzio attardò le ricerche degli israeliti sull’appoggio ricevuto. Ma finalmente, dopo molti anni di ricerche, le prove dimostrarono inequivocabilmente la verità, seppur taciuta: Bartali aveva effettivamente aiutato gli ebrei e rischiato la vita per salvarne molti, circa un migliaio. Perciò, moltissimi anni dopo i fatti, precisamente nel 2013, Il Governo di Israele riconobbe l’opera svolta dal campione di ciclismo per salvare gli ebrei dalle persecuzioni. Il suo nome comparve nei giardini, creati anche in Italia, tra “I GIUSTI DELLE NAZIONI”. Infine, nel 2018, venne proclamato cittadino onorario di Israele, per decisione dell’omonimo Governo.
Sergio Caivano