Joyce Carol Oates
La figlia dello straniero
La nave di Teseo, 2020, pp. 784, € 22,00
Joyce Carol Oates, una delle voci più importanti della narrativa americana, più volte candidata al Nobel, oggi ottantenne, vive in solitudine in una casetta immersa nel verde, nelle vicinanze di Princeton.
I suoi numerosissimi romanzi, poesie, saggi, sceneggiature possono considerarsi un attraversamento dell’universo del bene e del male e dell’infinità dei sentimenti umani. Seguendo un detto di Stendhal (Ogni artista ha il dovere di offrire uno specchio della realtà. Così l’umanità può vedere se stessa.) J.C. Oates, in La figlia dello straniero, offre al lettore uno spaccato della realtà americana dell’inizio del Novecento. Tratta del pellegrinaggio di Rebecca, la figlia di un becchino, cresciuta in un cimitero, che, nel tentativo di liberarsi del proprio passato, con il proprio figlio si sposta da una città all’altra, cambia continuamente lavoro e… perfino nome; ma… ciò che ha segnato l’anima si porta dentro ed è indelebile.
“La genesi del romanzo – confessa l’autrice in un’intervista – è un’esperienza emotiva così intima che tremo a ripensare alla sua composizione. La storia si ispira alla madre di mio padre, Blanche Morgenstern, in America all’inizio del Ventesimo secolo. Un giovane donna che si sposta lungo il proprio paese lasciando dietro di sé pezzi enormi del suo passato, un marito violento; una lettera di un lontano cugino, sopravvissuto all’Olocausto, le rivela dei suoi genitori più di quanto essi avrebbero voluto confessare. Il mio romanzo evolve in finzione, solo l’essenziale è autobiografico”.
Il ritmo del romanzo è lento, si indugia nei particolari, si scava nell’interiorità dei personaggi. La prosa è di una leggerezza luminosa e fluttuante.
Affiorano via via i grandi temi cari Joyce Carol Oates: la fragilità dell’identità e l’imprevedibile, la violenza maschile, la paura, la solitudine, la diffidenza (come un refrain si ripete: “Non fidarti mai di quegli altri, sono nostri nemici”) la difficile integrazione, il disadattamento. Il lettore avverte un’esperienza del mondo così profonda, così tragica che apre (e non solo nella protagonista) quella ferita attraverso cui si giunge nelle zone più oscure ed opache dell’io.
L’arte dell’Oates, nel dipingere con potente vigore realistico la tristezza, la meschinità di Jocob Schwart, l’ambiente fisico ed umano dei villaggi e dei piccoli centri della contea di Chautauqua e di tutta l’East Coast è molto suggestiva. La delineazione dei caratteri e, primo fra tutti, quello della protagonista, appare di estrema vivezza. Questa bella donna, tutta sensi, impulsi, istinti, tesa nella ricerca di valori di riferimento e della propria identità, nell’affermazione di se stessa, tenta con ogni mezzo, a svincolarsi del proprio passato.
Emerge così la natura stessa della scrittrice, le metodica serenità della donna “pensosa” che sempre più “comprende” il mondo e se ne separa.
Bastano frasi, secche e precise, per scolpire caratteri e situazioni: “come creature marine sorde e cieche vivevamo insieme nella caverna buia, incuranti l’una dell’altra” (p. 143) oppure... “esiste sempre una via d’uscita. Se si riesce a rimpicciolirsi come un verme” (p. 229) e ancora, quando il vecchio capitalista e miliardario Thaddeus Gallanger, disprezzando il figlio, pianista e giornalista dalle idee politiche opposte alle sue perché aperto agli altri, agli ebrei, ai negri, con disprezzo afferma: “In quei suoi articoli inventa, distorce, esagera in nome della verità morale. Come se esistesse una verità morale che confuti la verità storica” (p. 577).
Quadri di vita inondati di una luce che dà rilievo ora al tragico, ora al pietoso, qualche volta al grottesco.
Oates è una delle poche scrittrici americane che possiede il senso del tragico: non narra soltanto, ma penetra nell’oscurità dell’animo umano. La disperazione della condizione umana e lo stupore per la tenace volontà di vivere (malgrado tutto!) di Rebecca trova, in certe pagine, una convincente espressione.
La conclusione del romanzo porta, inevitabilmente, a riflettere sulla indifferenza della natura e della società “civile” di fronte all’atroce dibattito morale dell’uomo e l’eterno, immoto svolgersi della vita stessa.
Giuseppina Rando