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Gianfranco Cercone. “Le sorelle di Marija” di Robert Ryan
26 Aprile 2021
 

Un documentario si presta, più di altri generi cinematografici, allo studio di una persona reale; lo studio, cioè, delle ragioni all’origine dei suoi comportamenti, anche quando quei comportamenti possono apparire a un primo sguardo soltanto gratuiti, stravaganti o addirittura assurdi.

Quest’opera di intelligente analisi è applicata dal regista inglese Robert Ryan alla figura di una certa Christine Meeusen – il suo pseudonimo è “Sorella Kate” – nel documentario soprattutto a lei dedicato dal titolo Le sorelle di Marija, uscito in Italia in questi giorni su due piattaforme digitali: Wanted Zone e iorestoinsala.

Sorella Kate ha fondato alla fine degli anni Novanta in California, precisamente a Merced County, una associazione parareligiosa – le cosiddette “Sisters of the Valley” – le cui “adepte” vestono da suore; un’associazione specializzata nella vendita di prodotti a base di cannabis.

Il legame tra il commercio e la religione apparirà meno incongruo se si considera che i prodotti messi in vendita sono destinati a persone malate, sono a scopo terapeutico; e che sono a volte ceduti gratuitamente a chi non può permettersi di acquistarli.

Tuttavia il documentario stesso dimostra che non è un’associazione nata soltanto a scopi umanitari.

La fondatrice, che da ragazza si era sposata ed è madre di tre figli, aveva messo su una società di consulenza finanziaria. E lo spirito di iniziativa dell’imprenditrice, il fiuto per gli affari, l’aveva poi indirizzata a puntare sulla cannabis quando quella società era fallita e la California aveva cautamente cominciato – con molte restrizioni – a legalizzare la coltivazione della marijuana.

Ma la vicenda che il film ci narra, non è soltanto un caso – che suona tipicamente americano – in cui idealismo e senso degli affari si combinano tra loro.

Il matrimonio della ragazza era fallito quando lei aveva scoperto che razza di traditore fosse il suo bel marito (di gran lunga peggiore, per intenderci, di un comune adultero).

Dopo il divorzio, si era rifugiata in casa del fratello, il quale aveva poi finito per scacciarla, riducendola quasi a una barbona.

Dunque la sua storia l’aveva indotta a demistificare, a considerare vuote finzioni, due dei valori principali della cultura conservatrice: il matrimonio e la famiglia. Quella stessa cultura per cui poi il vescovo e lo sceriffo sono alleati fra loro nella lotta contro la droga – compresa la marijuana – considerata fonte di peccato e di disordine sociale.

Insomma: la decisione di vestire – e di far vestire alle sue socie – l’abito da suora, è un atto di sfida contro una mentalità: quella per cui la Virtù, che si autoproclama tale, condanna la droga come un Vizio, ignorando quanta ipocrisia si possa nascondere in quella Virtù, e ignorando anche quel po’ di bene che può trovarsi in quel presunto Vizio.

Insomma: il documentario di Robert Ryan è un atto di accusa contro l’ideologia proibizionista, che, a quanto pare, resiste anche nella libertaria California. Ma non sacrifica a tale tesi un ritratto sfaccettato e complesso, contraddittorio, della figura della protagonista: una sedicente suora pronta anche a imbracciare il fucile per difendere le sue coltivazioni dalle rapine dei narcotrafficanti.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 24 aprile 2021
»»
QUI la scheda audio)


 
 
 
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