Capita a volte che due film visti a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, si chiariscano a vicenda, mostrino per esempio degli elementi in comune che, proprio grazie a tale confronto, acquistano più rilievo, finiscono per costituire una possibile chiave di lettura di entrambi i film.
È il caso, a mio parere, di due film americani, entrambi candidati agli Oscar. Il primo si intitola Sound of metal, di produzione indipendente, diretto da Darius Marder. È uscito su Prime Video ed è candidato agli Oscar fra l’altro per il Miglior Film e per il Miglior Attore Protagonista (Riz Ahmed).
L’altro film è Soul di Pete Docter, prodotto dalla Pixar, uscito sulla piattaforma Disney Plus, e poi anche in DVD e su varie piattaforme digitali, ed è candidato agli Oscar anche come Miglior Film d’Animazione.
Sia in Sound of metal che in Soul il personaggio principale è un musicista: un batterista nel primo caso; un insegnante di musica ma anche un pianista di jazz nel secondo. E ad entrambi capita una disgrazia.
Il batterista di Sound of metal subisce una grave e improvvisa menomazione dell’udito, che gli impedisce di continuare a suonare nella sua band; il pianista di Soul, peggio ancora, traversando la strada, sprofonda nel sottosuolo per la mancanza di un tombino, e finisce direttamente nel più alto dei cieli: all’altro mondo.
Ma le analogie non finiscono qui.
Le due disgrazie inducono le rispettive vittime a ripensare profondamente la propria vita.
Il pianista muore, ma dall’aldilà, attraverso una serie di complicate circostanze che sarebbe troppo lungo riassumere, ottiene una chance di ritornare sulla Terra, e completare, forse riparare, il percorso della propria esistenza.
Il batterista, più realisticamente, finisce in una comunità di recupero per sordi e, secondo le rigide regole imposte dal direttore, taglia i ponti con il mondo dei “normali”, degli udenti, compresa la cantante con cui lavorava e conviveva. Dovrà occuparsi piuttosto dei bambini di una scuola speciale per sordi, imparare il linguaggio dei gesti, e soprattutto trovare la pace dentro di sé. Dopo un crisi di rigetto rispetto a questa nuova forma di vita, egli sembra adattarvisi, e scoprire in essa soddisfazione e anche felicità. Ma il richiamo dell’amore e dei concerti finirà comunque per prevalere. Così, a costo di causare una delusione al direttore della comunità, si farà inserire un impianto acustico artificiale, e tornerà dalla sua donna e all’attività di concertista, permanendo però in lui una nostalgia forse decisiva per quel mondo a parte, come astratto dalla società, in cui il successo, la realizzazione professionale, non hanno alcun valore, e in cui il suo deficit, che comunque non sarà annullato, non è percepito come una mancanza.
Il percorso del musicista di Soul appare inverso.
Tornato sulla Terra, lui che era un insegnante di musica frustrato, può finalmente suonare in un concerto dal vivo in una prestigiosa band di jazz. Eppure, realizzato così il più grande sogno della sua vita, permane in lui un senso di insoddisfazione. Pur avendone l’opportunità, decide di rinunciare – di delegare a un’altra anima – la carriera di musicista, e tornato per la seconda volta dall’aldilà sulla Terra, decide di dedicarsi prima di tutto al puro piacere di vivere.
Come si vede, in entrambi i personaggi entrano in conflitto due morali, due modi diversi, forse contrapposti, di concepire la vita.
Nel primo, più tradizionale nel cinema statunitense, il valore principale è, se non il successo, la realizzazione del proprio talento, artistico in questi casi. E allo scopo, si insegna, occorre non farsi scoraggiare dalle circostanze avverse, dunque lottare; afferrare al volo le occasioni che offre la fortuna.
L’altra morale, invece, informata, particolarmente in Soul, dal senso della precarietà della vita, predica invece, come in contrapposizione alla tensione e allo sforzo, di accettare il proprio destino; di godere, senza preoccupazioni, spensieratamente, delle piccole gioie, comunque preziose, che ci sono concesse.
Un’immagine emblematica di questa seconda morale che si ritrova in entrambi i film, è quella in cui i due protagonisti si rallegrano da soli, in silenzio, del contatto della luce del sole sul proprio viso. È come una benedizione, in una religiosità laica, che sembra di derivazione buddhista.
Il critico cinematografico non è un predicatore, e non spetta dunque a me stabilire quale delle due morali sia più valida, ammesso che non possano integrarsi a vicenda. Il mio compito è soltanto rilevare un significato in comune ai due film, aggiungendo che sono entrambi, da un punto di vista formale, da vedere, o almeno interessanti.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 10 aprile 2021
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