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Gianfranco Cercone. “Sweet country” di Warwick Thornton
06 Aprile 2021
 

Qualcuno ha osservato che alcuni generi cinematografici, come il western, servono agli spettatori adulti per ritornare all’infanzia, essendo tra i loro ingredienti il gusto dell’avventura, uomini eroici, paesaggi tanto esotici da apparire quasi fantastici.

È uscita in questi giorni sulla piattaforma Prime Video, una singolare variazione australiana sui temi del western. È un film che si intitola Sweet country, diretto da Warwick Thornton, vincitore nel 2017 del Premio della Giuria al festival di Venezia: un western ambientato nelle praterie, nel deserto e negli insediamenti urbani nel nord dell’Australia, negli anni Venti del secolo scorso. Il ruolo di antagonisti dei colonizzatori bianchi è qui rivestito, invece che dagli Indiani, dagli aborigeni australiani.

La componente immaginifica del western – quella che, appunto, può far sognare lo spettatore adulto facendolo ritornare come bambino – è compressa o del tutto azzerata. Anzitutto, gli allevatori bianchi non hanno una statura eroica. È vero che uno di loro, il più progressista, tratta con umanità la manodopera quasi schiavile degli aborigeni. Ma gli altri allevatori sono lunatici, irascibili, crudeli, perfino stupratori; segnati dalla vita solitaria in quelle praterie bruciate dal sole, o dai traumi della guerra da cui sono reduci.

La ricerca, guidata da una specie di sceriffo, di un aborigeno accusato di avere ucciso un bianco, è certo pericolosa, svolgendosi in spazi incontaminati dalla civiltà e popolati di indigeni ostili, ma più che il suo carattere avventuroso, il racconto evidenzia l’ossessione quasi delirante dello “sceriffo” che la conduce, disposto anche ad affrontare da solo a cavallo il deserto, per catturare quell’uomo ai suoi occhi certamente colpevole.

A paragone dei bianchi, gli aborigeni appaiono nel complesso saggi, equilibrati e sereni, nonostante siano vittime di uno spietato sfruttamento, senza tuttavia che risultino soltanto come figure edificanti. Uno di loro, il più giovane, un ragazzino, assiste con indifferenza, e anche con soddisfazione, all’uccisione di quel “padrone” bianco che lo aveva messo in catene soltanto perché lo sospettava colpevole di un furto: una reazione, quella del ragazzo, del tutto verosimile.

Va detto, però, che si tratti di allevatori, di aborigeni o dello stesso “sceriffo”, la descrizione dei personaggi è piuttosto rudimentale, tanto che ognuno di loro può essere riassunto in un’unica caratteristica. E se la ricerca dell’aborigeno in fuga non è tradizionalmente avventurosa, rischia di essere a volte monotona.

L’episodio più riuscito del film è forse quello conclusivo, ambientato nella cittadina in cui risiede lo “sceriffo”. Un giudice, nominato dal re d’Inghilterra, celebra il processo nei confronti dell’aborigeno che si è poi spontaneamente consegnato alle autorità. Ed è un momento solenne, perché nella cittadina fa così ingresso per la prima volta lo “Stato di Diritto”: per la prima volta perché, scopriamo, quella località era ancora sprovvista di un tribunale, tanto che il processo deve celebrarsi all’aperto, nel piazzale antistante una specie di saloon.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 3 aprile 2021
»»
QUI la scheda audio)


 
 
 
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