Assistendo a un cartone animato come Bombay Rose – si tratta di un film indiano, diretto da Gitanjàli Rao, presentato al Festival di Venezia, alla sezione della Settimana della Critica, e ora uscito su Netflix – ci si può chiedere perché la regista abbia deciso di raccontare la sua storia utilizzando il mezzo dei disegni animati.
Va detto che il tema del film non è di quelli che sono tradizionalmente affidati a tale strumento di narrazione, che è convenzionalmente associato alle favole o comunque ai racconti di genere fantastico.
Qui invece la storia è realistica, e se in alcuni passaggi è messa a confronto con le favole o con i film commerciali più consolatori, è per evidenziare quanto la realtà presa in esame dal film sia drammatica, irta di problemi, tale che difficilmente possa sciogliersi in un lieto fine.
Bombay rose racconta i casi di una ragazza di famiglia povera, affidata insieme alla sorella minore alle cure del nonno il quale gestisce una bancarella dove ripara orologi.
Lei di giorno vende ghirlande di fiori, mentre la notte è costretta da un brutto ceffo che la sfrutta, a ballare in un locale equivoco, in attesa di raggranellare i soldi per trasferirsi a Dubai, dove però, si accenna, sarà ancora più duramente sfruttata.
Se la vita fosse una favola, o un musical di Bollywood, il riscatto per lei sarebbe costituito da un ragazzo forte, bello e di animo gentile, che si innamora di lei e la corteggia; e certo vorrebbe liberarla dal suo stato di costrizione.
Ma la realtà è che quel giovane è ancora più povero e derelitto di lei: per guadagnarsi da vivere vende ai passanti dei fiori, fiori che ruba da un cimitero. E in pratica, insomma, per lei può fare ben poco.
Altri ancora sono i problemi sociali che il film affronta o che lascia intravedere, come il lavoro minorile, i matrimoni combinati con le spose bambine, o un’anacronistica censura cinematografica.
E tuttavia il sentimento che accompagna il racconto non è soltanto, o soprattutto, quello di una malinconia inconsolabile. Anzi, il film infonde allo spettatore un misterioso buonumore, si segue a volte con il sorriso sulle labbra. E non soltanto perché la vicenda si conclude in piccola parte positivamente – la ragazza troverà i mezzi per liberarsi dalla tirannia del suo protettore, e la sorellina troverà un finanziamento per frequentare la scuola. Se così fosse ci si potrebbe rallegrare soltanto durante il finale del film, che è insperato, un po’ improbabile, e anche, per altri aspetti, tragico.
Ciò che rallegra per tutto il racconto è proprio la traduzione della realtà quotidiana in disegni animati. Che siano le strade affiancate da povere bancarelle con le loro merci variopinte; o un piccolo cimitero cittadino pulito e ordinato, quasi un’oasi nella fatiscenza di Bombay; o che sia uno squallido locale dove la notte un ragazzo dorme su un tavolo risvegliandosi in un bagno di sudore; o che sia una scuola immersa tra gli alberi in fiore, dalle mura chiazzate di luce primaverile; che siano insomma luoghi belli o brutti, simboli di povertà e di degrado oppure di civilità e di riscatto, ciò che comunque rallegra è la capacità di un disegno artigianale – ora più rifinito, ora più sfocato e impressionistico – la capacità di cogliere l’aspetto e l’atmosfera dei luoghi. È insomma la felicità dell’arte di contemplare e poi rappresentare la realtà; una felicità quasi mistica, che resta la stessa di fronte alle miserie e agli splendori del mondo.
Per questa ragione, più formale che di contenuto, Bombay rose è, a mio parere, un film da vedere.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 13 marzo 2021
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