Voglio oggi parlarvi di due film “indipendenti”, e cioè piccoli da un punto di visto produttivo, ma che hanno già ottenuto un’eco internazionale, e che, grazie ad alcune piattaforme digitali – che, specie in questo periodo, hanno sostituito il circuito dei cinema d’essai – potrebbero raggiungere quel vasto pubblico che meriterebbero.
Il primo film si intitola A perfectly normal family, ed è un film danese, presentato al Festival di Rotterdam, diretto da una regista esordiente nel lungometraggio, Malou Reymann; distribuito dalla piattaforma MUBI, specializzata nel cinema d’autore.
Il titolo si presta a essere interpretato in senso letterale oppure in senso ironico. In effetti l’evento che dà avvio al racconto – di ispirazione autobiografica – non è di quelli che rientrano nei casi medi della vita familiare. Un uomo decide di separarsi dalla moglie, dalla quale ha già avuto due figlie, perché non sopporta più di vivere in un corpo maschile e vuole trasformarsi in una donna.
La circostanza, di cui il racconto non attenua la portata drammatica, è raccontata dal punto di vista della figlia minore dell’uomo, ancora bambina.
Ora, nella bambina non pesano pregiudizi razzisti, omofobico o transfobici: la società danese, quale emerge dal film, era nel complesso aperta e tollerante. E tuttavia il cambiamento della vita familiare che il mutamento di sesso del padre comporta, le risulta inaccettabile. Al dolore della separazione tra i genitori, si aggiunge il venir meno di un sostegno maschile di cui lei continua ad avvertire disperatamente il bisogno.
Un film, si sa, non è un trattato di psicologia. E certe intime necessità non vengono manifestate attraverso concetti o parole, che del resto forse una bambina non riuscirebbe bene a trovare, ma attraverso dei fatti, e più ancora attraverso gli atteggiamenti del corpo o le espressioni dei personaggi, che qui risultano sempre indovinate e spontanee.
Un episodio significativo è che la bambina, finché il padre era un uomo, amava seguire con lui le partite di calcio alla televisione (lei stessa gioca nella squadra di calcio della scuola). Ma il padre, divenuto donna, dichiara un giorno a tavola, come niente fosse, che lui (lei) non capisce nulla di calcio, e che le partite non gli interessano affatto, lasciando su sua figlia, senza accorgersene, un’ombra di profonda delusione, per quel genitore divenuto per lei come un estraneo.
È vero che egli non viene mai meno alla sollecitudine, all’affetto di un genitore, anche nei confronti di quella bambina che gli è manifestamente ostile.
Ma tutte quelle premure, riversate ora sotto una veste materna, seppure sincere, alla bambina risultano imbarazzanti, invadenti, odiose. E soltanto con il tempo, e dopo che il padre si sarà trasferito in un’altra città, lei riuscirà a riconciliarsi con lui, e con la propria sorella che era sempre rimasta dalla parte del padre. E potrà così ricrearsi un’armonia familiare – sia pure con due genitori separati – che ci dà davvero alla fine l’impressione di una famiglia a suo modo normale.
Il secondo film si intitola Il mio corpo. È diretto da un regista italiano, Michele Pennetta; è stato presentato in diversi festival internazionali tra cui la Festa del Cinema di Roma, ed è disponibile su varie piattaforme digitali come iorestoinsala, Zalabb e CG Digital.
Anche in questo caso il titolo suggerisce una chiave di lettura del film, che è un documentario, ambientato in Sicilia ai giorni nostri. Il racconto segue la vita quotidiana di due personaggi. Il primo è un adolescente che, insieme al fratello, lavora per il padre, prelevando macchinari usati da una discarica. È un lavoro duro, che sottrae il ragazzo alla scuola e non gli apre nessuna prospettiva di miglioramento della propria condizione di povertà. Come per tentare di evadere da tale destino, egli si ritaglia parentesi di ozio, in cui passeggia da solo in bicicletta o si distende sui campi sotto il sole. Il suo corpo è pieno di un languore che “istupidisce” i suoi gesti, tanto che il padre lo rimprovera di essere inetto al lavoro, forse senza comprendere che quel languore è una forma di protesta – espressa, anche qui, più che con le parole con il corpo – contro l’ingiustizia che subisce: che gli sia preclusa la possibilità di un riscatto.
È un personaggio “abbinato” a un immigrato in Sicilia dall’Africa: un giovane dal corpo invece pieno di vigore, capace di eseguire i lavori più vari e a volte pesanti, dalla raccolta dell’uva, alla pastorizia, alle pulizie in una chiesa; oppresso da un senso di solitudine e di eterna precarietà.
Fra i due personaggi avverrà un incontro quasi magico, per quanto sembra predestinato, avvolto da un senso di mistero, nel quale, rispecchiandosi l’uno nell’altro, riusciranno forse, per quanto possibile, a confortarsi a vicenda.
È il momento più poetico di un film delicato, capace di cogliere i più lievi stati d’animo dei due protagonisti.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 6 marzo 2021
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