Bella giornata. Il sisma annunciato per l’11 maggio1 non c’è stato, il sole splende, l’aria si è addolcita. E così prendo il treno e me ne vado a prendere un caffè a Roma. A Roma io ci sono nata, ma poi me ne sono allontanata come una figlia degenere. E Mamma Roma ogni tanto mi chiama per un abbraccio tenero e sensuale. Roma per me è legata a Pasolini. La guardo e la vedo con gli occhi di Pasolini: città “stupenda e misera”. La Roma borgatara di Ragazzi di vita e di Accattone, delle baracche di Cecafumo, di quel ciak girato a Casal Bertone, con la Magnani che cerca di trovare il passo di tango assieme a Ettore, fra scoppi di rabbia e di allegria. Umorale, la Nannarella, come questo cielo turbato di un maggio che non sa di maggio, con un sole che sembra avere paura di affacciarsi.
No, non a noi: tu manchi/ a loro, che pure vivono a livelli/ d’esistenza di sole, in pienezza/ e tra baracche e sterri,/ prati zeppi di canne e d’immondezza,/ sentono in questa disorientata brezza,/ con altro cuore, il tuo non esserci (…)
Qui non siamo in mezzo alle baracche, in mezzo ai palazzoni tutti uguali piantati sullo sfondo degli Acquedotti; non siamo tra i giovanottelli malandrini, i manovali calcinosi e le prostitute con un cuore grosso come una capanna.
Qui non si sentono né stornelli né bestemmie né risate, solo il rumore di una città che respira affannata, col raschio di polmoni intasati e le arterie infiammate.
Il caffè sa di bruciato e di fretta, la tazza mi arriva volando sul bancone, un sorso e via, non lascio la mancia.
Prendo l’86 per andare a via Po per una commissione, scendo alla quinta fermata e me la rifaccio a piedi fino alla quarta – l’ufficio che cerco si trova all’inizio della via – faccio quello che devo fare e poi lemme lemme mi avvio a piedi verso la stazione Termini.
In via delle Terme di Diocleziano mi fermo alle bancarelle dei libri usati e cerco fra tanta inutile carta stampata il gioiello da portarmi a casa. Una mia vecchia, amata abitudine, quella di rovistare fra i libri usati per trovare il volume prezioso che non si trova in alcuna libreria. Ma queste bancarelle – a differenza di quelle che frequentavo nei decenni passati – i libri li tengono per scusa, e curano invece molto la pornografia in DVD. Bene esposta in primo piano, tale mercanzia si presta, inerte, al palpeggiamento di signori di mezza e terza età, che fanno i loro acquisti ad occhi bassi, pagano e scivolano via come lumache senza guscio. Lasciando una bava repellente laddove hanno messo le loro grasse mani. Ma non mi tiro indietro per questo, e schivando quanto più possibile la zona pateticamente oscena, frugo con lo sguardo il dorso dei volumi esposti in alto e con le mani i libri accatastati in pile pericolanti.
Le bancarelle sembrano senza padrone. Nessuno che si affacci da dietro il bancone. Un cartello dice: “Suonare la campanella per chiamare” e tiro il cordone. Arriva dall’altra parte della strada un giovane rasta, bianco e nostrano e bello come un imperatore etiopico, e indolente si accende una sigaretta: “Dica?”. “Quel libro lassù, per favore”. “Questo qui?”.
E mi trovo fra le mani Nuovo fiore, raccolta di scritti di Angelo Manaresi sulla guerra d’Abissinia, edito nel ’37. Poi rovistando ancora con gli occhi scovo Le montagne e gli uomini di Ilin, finito di stampare nel 1949 nell’Archetipografia di Milano per conto della “Cooperativa Libro Popolare”. Prezzo di copertina cento lire, ora mi costa cinque euro. Un libricino striminzito, leggero come una piuma, che in poco più di cento pagine riesce a farti conoscere il pianeta e la sua vita, con la facilità con cui si potrebbe vedere un bel film.
Aprire il volumetto e capire tutto questo è semplice come bere un bicchier d’acqua. I libri, quando uno ci entra in sintonia con la passione e la dedizione di una vita, poi ti chiamano e si fanno scegliere a colpo sicuro.
Questa nostra terra ammalata del cancro che noi siamo, chiede di essere compresa, di non essere costretta a sputarci fuori dal suo corpo seviziato e offeso, chiede tregua. E io voglio capire, con una rappresentazione semplice e rigorosa, come si è costituita la vita sul pianeta, come si evolve e come risponde ai veleni che gli sono inoculati dall’uomo incessantemente.
Mi sposto verso il Largo di Villa Peretti, e un puzzo tremendo mi ci appiccica addosso. WC, Azienda Municipale Ambiente, e meno male che c’è. L’erba delle aiuole spelate grida aiuto, gialla itterica, soffocata dai corpi malandati di tossici, alcolizzati e disperati buttati alla rinfusa tra cumuli di rifiuti e indumenti stesi ad asciugare, pantaloni e magliette che sembrano rivestire fantasmi allucinati.
L’obelisco del Monumento ai Caduti tende inutilmente al cielo, legato com’è al peso di tanta storia. I leoni silenziosamente ruggiscono e tra le fauci ossidate stringono torsi di mele, lattine vuote, cicche e fazzoletti usati.
Pace – Erba Gratis è l’invocazione dell’ignoto imbrattatore, che al monumento affida la sua scarabocchiata supplica.
E qui ci sono i nomi dei Caduti. Separati per gradi e appartenenza, quando è risaputo che da morti si è tutti uguali. Zappatori appuntati caporali trombettieri, tenente colonnello capitani e sottotenenti, e per i soldati (semplici) le rimanenti otto colonne, ogni colonna 27 nomi, per un totale di 216 eroi senza medaglia. Pro Patria.
I colombi si stanno avvelenando becchettando rifiuti, il tanfo di orina scaccia l’aria incerta di primavera, i city buses Tour Tricolore e Roma Cristiana fanno la spola carichi di turisti che vogliono vedere la Roma che conta, quella del Quirinale e del Vaticano, la testa riparata dai cappelli di paglia che truppe di giovani africani vendono ad ogni fermata.
Ci sono dei paesi dove avere la pelle nera è di per sé una colpa, scrive Carlo Levi nella sua prefazione a Accattone del suo amico Pasolini. E ancora: Accattone ha la pelle grigia. Del grigio delle borgate, della povertà, della debolezza, del grigio opaco di una razza artificiale a cui non è consentita la trasparenza vermiglia del sangue.
Il sangue. È con il sangue che si scrive la storia, ed è la storia che può infettare il sangue.
Siedo sui gradoni del Monumento, fra due tunisini che bevono birra e un corpo raggomitolato nel sonno che non mostra la sua nazionalità: è un corpo e basta, che ogni tanto sussulta.
Apro il libretto di Ilin – Ilia Iacobovic Marsciak, nato in Russia nel 1895 e all’uscita del libro era ancora vivente – lo sfoglio con la cautela che si usa per i libri pregiati e vissuti e comincio a leggere l’introduzione:
L’altro giorno ho trovato fra i miei vecchi libri un povero volume sgualcito, con la copertina di cartone tutta tarlata. Era una Geografia delle cinque parti del mondo. Non c’eravamo rivisti da almeno venticinque anni. L’aprii e mi misi a guardare le immagini familiari alla mia infanzia: un isolotto di corallo, una grotta a stalattiti, un ballo sul tronco di un albero gigante, il baobab, una vedova bruciata a Bernares, una lattaia italiana in groppa a un asino, una famiglia di ricchi contadini del governatorato di kursk.
Vado avanti con la lettura, con la brama di un’assetata che vorrebbe prosciugare con una sorsata l’intera fonte.
E a certo punto trovo il segreto che si nasconde fra le pagine del libro.
Fra un rigo e l’altro un tratto di matita leggero traccia una scrittura minutissima e fitta, quasi invisibile.
Capisco subito che si tratta di un ritrovamento eccezionale, e col cuore a mille inforco gli occhiali da vista più potenti che mi trovo in borsa, e m’immergo in un segmento del passato che si rivela, andando avanti a sillabare con fatica parola dopo parola e pagina dopo pagina, un passo della storia fra i più drammatici.
Le regole qui sono dure, e i più in vista fra noi sono guardati a vista come bestie feroci. Ci consentono solo spazi minimi e controllati, non è permesso scrivere ai familiari, solo una cartolina a settimana o anche una lettera che non deve dire niente altrimenti viene cestinata. Ci viene imposto di fare una vita “normale” in condizioni impossibili. Qui tira sempre vento, il vento si porta via ogni granello di terra e non si può seminare sugli scogli. Qui non c’è acqua dolce, e le cisterne sono in pessime condizioni: si aspetta la pioggia per bere. E nella siccità e sporcizia prosperano i più schifosi insetti, e nel vento senza tregua che spazza le vie del paese risuona l’urlo di mille dannati. Ma ciò che più rende insopportabile la vita sull’isola è il sopruso, il non rispetto della legge, l’arbitrio nell’interpretazione delle regole da chi la legge dovrebbe applicarla.
Eppure noi ce la faremo. Noi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e il sottoscritto Ernesto Rossi, stiamo lavorando a un documento che passerà alla storia. È il nostro progetto par un’Europa libera e unita, lo intitoleremo Il Manifesto di Ventotene.
Quando sarà pronto troveremo un modo per farlo uscire dall’isola, le nostre donne sanno come fare.
Presto la guerra finirà, e le nostre idee potranno circolare liberamente. Ma per ora dobbiamo far conto su messaggeri corrotti che si possono comprare con parte del nostro sussidio: sei lire al giorno, e una scodella di minestra costa 5 lire. Ma si può vivere anche con una sola patata lessa, quando lo spirito è alto.
Ada, mia fedele amante cui null’altro posso offrire che lotta e rischi e passione civile, il documento che andiamo stilando dovrà essere divulgato a Roma e a Milano, ma intanto occorre raccogliere adesioni. Tu sei qui, nel vento violento e profumato di quest’isola-prigione, in questa mia sete implacabile di Libertà e Giustizia, nel sogno di un Movimento Federalista Europeo che porti alla pace fra le Nazioni, ad una buona gestione della Terra, all’eguaglianza fra i popoli. E sei là dove è il tuo posto, pronta a fare la tua parte, costi quel che costi, per servire il tuo Paese e preparare il Futuro di ognuno.
Fidando che questa mia ti giungerà, e che tu accoglierai con gioia le mie parole, ti abbraccio con tutte le mie forze. Tuo Ernesto.
Giunse nelle mani di Ada lo scritto di Ernesto? Eseguì Ada le indicazioni del suo uomo? Raccolse adesioni per il progetto del MEF?
Ada fu arrestata e condannata al confino di Melfi e trasferita nell’estate del ’43 a Maratea, e fu Ursula Hirschmann, moglie di Colorni, a far pervenire clandestinamente il Manifesto in continente.
A Ventotene, l’isola dell’esilio, c’è una lapide che ricorda le migliaia di perseguitati politici che nel ventennio fascista furono qui confinati, e anziché lasciarsi abbattere dalle condizioni impossibili di vita, qui si prepararono alla lotta “per un’Italia rinnovata nella Libertà”.
Chiudo il libro e mi avvio alla stazione Termini, ripassando mentalmente i punti chiave del manifesto di Ventotene, e sento che la fiducia si fa strada fra dubbi e sconforto, che “la crisi della civiltà moderna”, per quanto spaventosa e grave, potrebbe rivelarsi un passaggio obbligato per tornare a guardare avanti, a un sogno che non muore, di Libertà e Uguaglianza, dove da vivi e da morti si abbia per tutti pari dignità e trattamento.
“Signo’, attenta dove metti i piedi!”, e solo per un soffio evito di calpestare una bandierina tricolore, forse scappata dalle mani di un turista, e la raccolgo come una pepita.
Maria Lanciotti
1 11 maggio 2011.