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Silvia Comoglio. Per i 25 anni dalla scomparsa di Iosif Brodskij
28 Gennaio 2021
 

C’era una volta un ragazzino. Viveva nel Paese più ingiusto del mondo. Che era governato da individui i quali da ogni punto di vista umano dovevano essere considerati dei degenerati. Il che non accadeva mai. E c’era una città. La più bella città sulla faccia della Terra. Con un immenso fiume grigio il quale era sospeso sopra il suo alveo remoto come l’immenso cielo grigio sopra quel fiume”.1 Il ragazzino di cui ricorrono in questi giorni i 25 anni dalla sua scomparsa è Iosif Aleksandrovič Brodskij, il Paese più ingiusto del mondo l’Unione Sovietica e la più bella città sulla faccia della Terra è San Pietroburgo, Leningrado alla nascita di Brodskij, il 24 maggio 1940. Gli individui che governavano il Paese in cui il ragazzino viveva appartenevano al regime sovietico, quel regime che perseguitò e accusò il ragazzino diventato uomo e poeta di parassitismo sociale, rinchiudendolo in prigione e in ospedali psichiatrici, e condannandolo a cinque anni di lavori forzati poi ridotti a diciotto mesi a seguito di un movimento di protesta guidato da Anna Achmatova. E infine quello stesso regime espulse Iosif Brodskij dal suo Paese. È il 1972, l’anno che segna l’inizio di un esilio che non avrà termine neppure quando nel 1989 nel clima della glasnost gorbacioviana, Brodskij sarà “riabilitato”.

E così, mentre la Storia scriveva con il regime sovietico le persecuzione e i gulag una delle sue pagine più buie, la mano e la testa di un uomo si fondevano per diventare versi, riflessioni e saggi dedicati ad altri poeti (Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Derek Walcott, Wystan Hugh Auden…), consegnandoci, in questo modo, una delle pagine più alte della Poesia.

In quella condizione chiamata esilio “in cui tutto quel che resta a un uomo è lui stesso e la sua lingua, senza più nessuno o nulla in mezzo”2 Brodskij trovò nell’altra parte del mondo, negli Stati Uniti, un rifugio. L’uomo e la sua lingua. Un legame essenziale che si fa totale ed esclusivo quando l’uomo è un poeta.

Brodskij tornerà insistentemente sull’importanza del rapporto tra poeta e linguaggio, sul loro legame inscindibile, “un poeta, a differenza di chiunque altro, sa sempre che ciò che si suole chiamare volgarmente voce della Musa è in realtà il dettato della lingua; che non è la lingua a essere un suo strumento, ma lui stesso è il mezzo di cui la lingua si serve per continuare ad esistere”.3 Una dipendenza quindi, “assoluta e dispotica”.4

E a causa o per merito di questa dipendenza “assoluta e dispotica, Iosif Brodskij ci dona una poesia come Nature Morte. Scritta nel 1971 quando il poeta ancora non era in esilio Nature Morte ha come esergo un verso di Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, un verso che sarà poi ripreso in una delle dieci stanze di cui si compone questo testo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Una sorta per Brodskij di respiro profondo in cui contenere vita e morte? O il modo in cui vincere la battaglia con la morte, perché verrà la morte ma al posto di falce e teschio avrà gli occhi della donna amata? O ancora, una chiave lasciata cadere come viatico per la lettura di Nature Morte?

Un testo forte, Nature Morte, dove Brodskij, avvolto dal buio e dalle tenebre, decide di parlare e di parlare delle cose e non delle persone, perché le persone muoiono, muoiono tutte nonostante quel loro cercare di restare avvinte alla vita. Ed è per questo, pensando a questo, che Brodksij arriva a dire “Io non amo le persone”. Un vertice che è anche un argine, una sorta di difesa. Meglio le cose delle persone, loro non muoiono, in loro non c’è né bene né male, né al loro esterno né al loro interno. Niente etica, niente morale. Ma è normale che sia così, sono cose. E in aggiunta da una cosa non ci si deve guardare, da una cosa non si viene traditi. E di quella polvere che sulle loro superfici si deposita le cose non se ne curano, perché a una cosa non importa del passare del tempo, neppure lo sente il tempo che passa e quella polvere è parte della cosa, è il tempo stesso. “La polvere è la carne/ del tempo; la carne e il sangue”. Altro vertice, questi versi.

L’uomo, invece, a differenza della cosa, non può accettare la polvere, perché sa che nella lotta con la polvere è perdente. E’ vero che sarà polvere anche l’uomo e in quanto polvere diventerà carne e sangue del tempo ma non è in questo modo che l’uomo vorrebbe essere la carne e il sangue del tempo. Vorrebbe esserlo per impadronirsi del tempo, per piegarlo, indirizzarlo, ma questo non gli è concesso. Da qui ne consegue che con la polvere l’uomo è doppiamente perdente.

La morte la cosa la polvere. Emblemi o follie? Fisica o metafisica? Qui e ora sia la polvere sia la cosa sia la morte? E dopo? Dopo il nulla. Ma restando al qui ed ora, cosa polvere e morte sono sullo stesso piano? C’è una vera lotta tra uomo cosa e polvere? Con la polvere l’uomo è perdente e lo è anche con la cosa, ma né la polvere né la cosa si mettono in gioco con l’uomo. Lo ignorano. Diverso invece è per la morte e con la morte. La morte non ignora la presenza dell’uomo, anzi lo mette alla prova. Succede anche con Maria che davanti alla croce, di fronte al dilemma uomo o Dio, si chiede: “Come oltrepasserò la soglia,/ senza aver capito, senza aver deciso:/tu sei mio figlio o Dio?/Ossia: tu sei morto o vivo?// E lui in risposta:/ ― Morto o vivo, donna,/non c’è differenza./ Figlio o Dio, io sono tuo”.

Brodskij con Nature Morte ci lascia un testamento poetico e metafisico di alto valore per comprendere la sua produzione poetica e la sua avventura umana che si è conclusa a New York il 28 gennaio 1996 e di cui ancora vorrei ricordare il suo legame con Venezia. Desidero farlo perché è respirando e esplorando il tempo l’acqua e la bellezza di Venezia che Brodskij ci consegna un’altra tessera del suo testamento, un testamento, il suo, che è poi un grande vertiginoso mosaico e la tessera a cui ora mi riferisco è questa: “Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama”.5

 

Silvia Comoglio

 

 

 

Iosif Brodskij

Nature morte


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”

C. Pavese

 

 

1

 

Da cose e persone, da loro,

noi siamo accerchiati. E le une

e le altre ci dilaniano gli occhi.

Meglio vivere nell’oscurità.

 

Seduto su una panchina

nel parco, seguo con lo sguardo

una famiglia che passa,

nauseato dalla luce.

 

È gennaio. È inverno.

Così dice il calendario.

Quando sarà il buio a nausearmi

allora comincerò a parlare.

 

 

2

 

È ora. Sono pronto ad iniziare.

Da cosa è indifferente. Importa

aprire la bocca. Potrei anche tacere.

Ma è meglio per me parlare.

 

Di cosa? Dei giorni, delle notti.

O piuttosto – di nulla.

O delle cose invece.

Delle cose, e non

 

delle persone. Loro muoiono.

Tutte. Anch’io morirò.

Tutto quanto è una sterile fatica.

Come lo scrivere nel vento.

 

 

3

 

Il mio sangue è gelido. Un gelo,

il suo, più feroce di un fiume

ghiacciato fin sul fondale.

Io non amo le persone.

 

La loro fisionomia non fa per me.

Coi loro volti innestano nella vita

un aspetto come di qualcosa

da cui non ci si può liberare.

 

C’è qualcosa nei loro volti

che nella mente suscita ribrezzo.

Qualcosa che esprime adulazione

non si sa nei confronti di chi.

 

 

4

 

Le cose sono più piacevoli. In loro,

all’esterno, non c’è né bene

né male. E anche se ci penetri dentro,

fin nelle viscere.

 

All’interno di un oggetto – polvere.

Cenere. Un tarlo xilofago.

Le pareti. Una larva secca.

Tutto questo è sgradevole per le mani.

 

Polvere. E la luce, quando è accesa,

illumina polvere soltanto.

Anche se l’oggetto

è chiuso ermeticamente.

 

 

5

 

Un vecchio buffet dal di fuori

è proprio come all’interno,

mi ricorda

Notre Dame de Paris.

 

Nelle viscere del buffet

c’è solo oscurità. Il frettazzo,

il mondo, non scuoteranno la polvere.

La cosa stessa, di norma,

 

non si sforza di vincere la polvere,

non tende il sopracciglio.

Perché la polvere è la carne

del tempo; la carne e il sangue.

 

 

6

 

Negli ultimi tempi

io dormo in pieno giorno.

La mia morte, è evidente,

mi mette alla prova,

 

avvicinandomi, anche se respiro,

lo specchio alla bocca –

per vedere come riporto alla luce

questo mio non essere.

 

Sono immobile. Entrambi

i fianchi sono freddi, come

di ghiaccio, e l’azzurro

delle vene mi rende di marmo.

 

 

7

 

Facendoci la sorpresa di essere

la somma dei suoi angoli,

la cosa casca fuori

dal nostro mondo fatto di parole.

 

Una cosa non sta in piedi. E

neppure si muove. Pensarlo sarebbe un delirio.

La cosa è il suo spazio. E al di fuori

dello spazio una cosa non esiste.

 

Una cosa si può battere, bruciare,

sventrare, rompere.

Gettare. Di fronte a questo

non griderà “Va all’inferno!”

 

 

8

 

Un albero. La sua ombra. E la terra

sotto l’albero per le radici.

Curvi nomogrammi.

L’argilla. Un’aiuola di pietre.

 

Le radici. Il loro intreccio.

La pietra, che il suo

peso specifico rende libera

da questo sistema di vincoli e nodi.

 

È immobile la pietra. Non si può

spostare, né portare via.

L’ombra. L’uomo nell’ombra

è come un pesce nella rete.

 

 

9

 

La cosa. Il colore marrone

della cosa. Il suo contorno sciupato.

Il crepuscolo. Non c’è altro –

nient’altro. Nature morte.

 

Verrà la morte e troverà un corpo

la cui superficie rifletterà

la venuta della morte

come l’arrivo di una donna.

 

E il teschio lo scheletro la falce –

è assurdo, è una menzogna.

Verrà la morte

e avrà i tuoi occhi”.

 

 

10

 

Dice la Madre a Cristo:

Tu sei mio figlio

o il mio Dio? Sei stato inchiodato alla croce.

Come me ne andrò a casa?

 

Come oltrepasserò la soglia,

senza aver capito, senza aver deciso:

tu sei mio figlio o Dio?

Ossia: tu sei morto o vivo?

 

E lui in risposta:

Morto o vivo, donna,

non c’è differenza.

Figlio o Dio, io sono tuo.

 

 

1971

 

Trad. Silvia Comoglio

 

______________

 

1 I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi Edizioni, Milano, 1987.

2 I. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi Edizioni, Milano, 1988.

3 I. Brodskij, Dall’esilio, cit.

4 I. Brodskij, Dall’esilio, cit.

5 I. Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi Edizioni, Milano, 1989.


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