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Gianfranco Cercone. “L’ultimo turno” di Andrew Cohn
19 Gennaio 2021
 

Consultando i cataloghi delle piattaforme digitali, può capitare di scoprire film in Italia quasi sconosciuti, ma che sono da un punto di vista artistico delle piccole rivelazioni. Parlo di film recenti, che forse, se fossero usciti nelle sale, avrebbero avuto una circolazione limitata, ma che attraverso le piattaforme potrebbero raggiungere un pubblico molto più ampio.

Uno di questi casi è, a mio parere, L’ultimo turno, diretto da Andrew Cohn, un documentarista che esordisce con questo film nel cinema di finzione. Si tratta di un film americano indipendente, presentato al Sundance Film Festival, interpretato da un grande attore come Richard Jenkins.

Il titolo del film si riferisce al tempo e al luogo in cui gran parte del racconto si svolge: e cioè durante il turno di lavoro di notte in un fast food collocato su una strada provinciale di una cittadina degli Stati Uniti: in un quadro urbano periferico, desolato, essendo poi quello stesso negozio di fast food ormai antiquato, sorpassato da catene più moderne come quelle di McDonald; frequentato perlopiù da una vecchia e svogliata clientela di automobilisti.

Ma per quanto squallido e antiquato, quell’ambiente costituisce tutto l’orizzonte di vita di un uomo che ci lavora da tanti anni ed è giunto ormai alle soglie della pensione, addetto appunto al turno di notte, il più disagevole.

Sfruttato dai datori di lavoro, sottopagato, al limite della sussistenza, quell’anziano lavoratore non sembra consapevole dell’ingiustizia del trattamento a cui è sottoposto, e si dedica a preparare i panini che gli vengono ordinati sempre con il massimo scrupolo e con cortesia, senza mai dare segni di risentimento.

Avviene però che per alcune notti gli viene affiancato un nuovo addetto, colui che la notte dovrà sostituirlo appena andrà in pensione e a cui lui deve “passare le consegne”. Si tratta di un personaggio opposto al suo. È giovane mentre lui è anziano; è nero mentre lui è bianco; ma soprattutto è ribelle e consapevole dei propri diritti, quanto lui è ignaro e rassegnato. Se si trova a lavorare in prova in quel fast food, è perché è appena uscito di prigione (dove era finito per aver deturpato un monumento), e se non supererà quel periodo di prova dovrà tornare in cella a scontare il resto della pena.

Così descritta, l’opposizione dei caratteri è così netta che può sembrare schematica. E invece nel racconto risulta sempre viva e contraddittoria. L’anziano dovrebbe fare da padre e da maestro al giovane e invece è il giovane a risultare paterno nei confronti dell’anziano – che è rimasto del resto un eterno bambino, il cui unico sogno di liberazione, appena smesso di lavorare, è prelevare sua madre dall’ospizio e ritirarsi a vivere con lei in Florida. Mentre il ragazzo è già padre.

Il giovane dovrebbe detestare l’anziano per il suo conservatorismo, perché in gioventù quel bianco è stato testimone di un omicidio razzista. Ma sembra provare un sentimento misto di condanna e di pietà.

E se l’anziano dovrebbe a sua volta respingere quel ragazzo per la sua arroganza, finisce per essere illuminato dalla sua consapevolezza. Ma quella tardiva presa di coscienza sulla propria stessa vita, quando ormai in gran parte è già spesa, provoca in lui sgomento, un senso di ribellione impotente verso una condizione di vita irreparabile.

I due protagonisti sono interpretati in modo eccellente da Richard Jenkins – l’anziano – e da Shane Paul McGhie – il giovane. Ma anche i comprimari, dall’assistente sociale, alla manager del fast food, al vecchio amico d’infanzia di Jenkins, sono definiti con precisione impeccabile, e tutti insieme formano un quadro di vita di impressionante verità.

Da vedere, su CHILI.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 16 gennaio 2021
»»
QUI la scheda audio)


 
 
 
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