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Massimo Carboni, Malevič. L’ultima icona 
di Maria Paola Forlani
19 Gennaio 2021
 

L’icona pur nelle sue diversificazioni, permane come rappresentazione che intercede dalla concretezza verso il divino.

In ambito bizantino ci furono le controversie più dure, le quali coinvolsero anche l’Occidente e di cui il libro pone giustissima attenzione. L’icona diviene comunque una testimonianza del volto del Padre “in-figurato” nel Cristo. In tale modo la tragedia umana di Gesù mantiene aperto un canale dissonante tra umano e divino. Tra oro e colore inoltre l’icona cerca un equilibrio di sospensione, in nome di un rapporto non consolatorio nella fede di Cristo. La patristica ha difeso tale modalità rappresentativa come immagine parlante e quindi possibile di benefici di preghiera anche per non alfabetizzati. È insomma un’apertura aperta a tutti tra l’elemento umano e quello divino. Inoltre la vita di Cristo da risorto è un mistero tra visibile e non più visibile.

L’opera di Kazimir Malevič è un ulteriore tassello d’indagine sul fenomeno dell’icona. Il Quadrato nero, datato dall’autore 1913, è un momento di rottura nel Moderno. Egli pone in essere la non figurazione, unico lascito immortale perché non riproducente la finitezza delle apparenze mondane. Massimo Carboni parla giustamente di “Deposizione” di ogni iconografia, in nome di una nuova e piena libertà. L’astrazione fu indagata da Malevič in modo estremo. Qui si mette alla prova la nozione di “oggetto” e “rappresentazione”.

Tale pratica astrattiva rinnova continuamente i modelli di riferimento precedenti e successivi. La ricerca suprematista poi pare assecondare che i problemi del mondo non hanno alcun senso e si risolvono nel nulla. Malevič nel 1913 aveva partecipato all’opera teatrale fortemente influenzata dal futurismo russo, Vittoria sul sole. Qui e dal movimento artistico succitato sicuramente l’autore aveva desunto idee che aveva trasportato nel proprio fare pittorico. Secondo queste congetture l’oggetto deve scomparire e si deve manifestare il vero reale. Lo spazio, per Malevič, non ha più alcun riferimento riscontrabile nella contingenza. Il Quadrato nero – di cui ne esistono tre versioni – è di fonte elevazione spirituale ma anche modulo ripetibile. Tutto ciò è sicuramente molto vicino all’icona e alle sue manifestazioni. Tante di tali questioni vengono veicolate nei principi del Suprematismo e anche successivamente trovano posto nelle fasi ulteriori del fenomeno. Nel Quadrato nero c’è l’evidenza del mistero, segno di un’assenza molto vicina al nulla del Sublime. L’opera apre all’infinito che sarà ereditata, tra gli altri, da Klein e Fontana.

Il Quadrato nero si pone come “tenebra luminosa” e qui, secondo l’autore, ognuno dovrebbe trovare il vero sé. Il fare diviene metafora per rivolgersi all’inoperosità, con rimandi all’esperienza orientale e all’annullamento pure della dimensione naturale. Nel 1919 Malevič, alla Decima Mostra di Stato allestita a Mosca, presenta una serie di quadri bianco su bianco, concretizzando la luce in questa peculiare dimensione di purezza/trascendenza. Questa modalità astrattiva, secondo Massimo Carboni, è uno scarto vicino a quello dei mistici. Nel 1923 Malevič va oltre, presentando quadri non dipinti e, pare, appesi sotto il soffitto. Siamo alla presenza, probabilmente, di un prodromo di performance che supera la mera questione pittorica. Da qui si passerà agli architektony o planiti, corpi tridimensionali che prefigurano nuovi modelli abitativi per una nuova esistenza dovuta alla rivoluzione russa. Tali indagini proposte dall’artista interrogano anche il nostro tempo, dove il fare arte presuppone anche una spiegazione teorica. Il Suprematismo porta avanti ed oltre il classico modo di proporre pittura. Malevič si propone nel proseguo degli anni Venti del secolo scorso ormai come pensatore perché crede che anche il segno vada superato in nome della scrittura. Egli evidenzia così i limiti dell’astrazione e della pittura. In questa fase sono da sottolineare le tangenze di pensiero tra Malevič e Duchamp. Le retrodatazioni delle opere e il successivo ritorno alla figurazione hanno creato molti intoppi critici. Secondo Massimo Carboni però l’artista ucraino, in tante opere, manifesta un minimalismo verso il nulla solo apparente. Permane un’ombra, un manifestarsi dell’inattingibile nella contingenza. Una sorta di dramma ancora aperto.

Un testo di notevole livello e nella sua parte finale, un pregevolissimo apparato iconografico.

 

M.P.F.

 

 

Massimo Carboni, Malicič. L’ultima icona

Arte, Filosofia, Teologia

Jaca Book, 2019, pp. 251, € 50,00


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