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Marisa Cecchetti. “Le Solitarie” di Ada Negri
26 Dicembre 2020
 

Ada Negri

Le solitarie

FVE Editori, 2020, pp. 248, € 16,00

 

I racconti di Ada Negri (1870-1945) della raccolta Le solitarie, edita la prima volta nel 1917 da Treves, portano il lettore ai primi del Novecento e definiscono prevalentemente un ambiente di provincia caratterizzato dalla manifattura tessile, ma aprono anche a scenari d’oltralpe, in linea con la vita della autrice.

Sono figure di donne piegate al lavoro fin dalla tenera età, che non hanno paura delle fatiche, che crescono i figli portando avanti famiglia e fabbrica senza un lamento, consapevoli della fortuna di guadagnarsi il pane. Questa loro posizione sul posto di lavoro accanto all’uomo non è tuttavia funzionale al riconoscimento di diritti, perché la società è ancora di stampo fortemente e palesemente maschilista, dove l’uomo è padrone geloso che determina la vita della femmina. Fiduciose e poi deluse dai figli a cui hanno dedicato la vita, come Feliciana; capaci di impadronirsi di un atto inatteso di amore nella nebbia che rende irriconoscibili i contorni, come Raimonda; che sanno stare al loro posto di serva, “con la gioia organica di chi si trova in perfetta armonia col proprio destino”, e non chiedono né desiderano altro. Che aspettano un uomo che ha fatto una promessa prima di emigrare, e dopo venti anni, senza domandarsi che cosa sia l’amore, accettano la mano che viene loro tesa: “Non chiedeva nulla: l’avesse lasciata lì, nell’angolo della strada, vi sarebbe rimasta senza protestare”.

Un uomo stupra e sporca, e toglie la luce dagli occhi di una appassionata maestra di paese, senza che gli vengano riconosciute le responsabilità. Uno, rozzo di modi, usa la giovane moglie “spinta al matrimonio, presa, maneggiata con allegra brutalità” come un oggetto, nel disgusto di lei che si salva solo con la immaginazione ed infine esce di senno “cogli occhi fuor dell’orbita, i capelli dritti, sul cranio, le braccia tese in avanti, cacciò un urlo, poi un altro, poi un altro”. Un emigrante affida alla attenzione vigile della propria madre la giovane moglie, che paga con la vita i suoi errori d’amore: “Liberarsi. Del vivo e del non ancora nato, nel medesimo tempo. Si vergognava di portare nel grembo l’impronta di colui che non la voleva”. Conosciamo due disperati – un uomo e una donna – che si incontrano nel momento di commettere una pazzia, e si salvano insieme: “Era scritto che dovessimo incontrarci sulle soglie della morte, per continuare, insieme, la vita. Venite con me”.

Sono donne sole, siano popolane o donne che si raccontano in un hotel di Zurigo. Hanno un malessere esistenziale che altro non è che un inconfessato bisogno di libertà, quella che ogni essere umano ha, o meglio dovrebbe avere riconosciuta quando viene al mondo, ma che in questi contesti non esiste ancora. Sfido anche a dimostrare che a distanza di un secolo le donne della Terra la abbiano davvero ottenuta, quella libertà che le madri non avevano ancora e qualche figlia borghese cominciava già a sperimentare.

La libertà dalle catene, dalla vergogna, dal dolore, dalla umiliazione, in queste storie la può portare la morte. E se una moglie non ha aiutato il marito agonizzante perché in quel momento ha intravisto la via per la liberazione dalle proprie sofferenze, quando confessa la colpa trova una inaspettata pietà e umana comprensione.

A livelli sociali più alti, in rispettabili famiglie borghesi, una donna alla mercé di un uomo sadico e geloso, si vendica cercandosi un amante: “Hai creduto che ne avessi tanti, non è vero? Ebbene, sì, guarda, ne ho uno!” La vendetta lascia amarezza e disgusto, e tragico senso di fallimento. Ci sono donne incapaci di vivere senza il compagno di vita, che alla sua morte non possono sopravvivere se non con una fervida immaginazione che rasenta la follia: “Lo vedo, gli parlo, lo interrogo, mi risponde. Il suo sguardo mi tocca, come fosse la sua mano”.

Sono donne sole, nella loro fatica fisica e psicologica, nella disperazione, per la maggior parte non hanno avuto nemmeno il tempo di piangere e di abbandonarsi al dolore, perché hanno sempre dovuto “tacere, curvarsi, lavorare”.

Sono figure melodrammatiche, eroine possibili di libretti d’opera, figure lacerate tra obbligo e desiderio, rese schiave dalla vita e dalle consuetudini sociali; si aggirano tra opifici e rumori di telai in funzione, nell’aria impregnata dagli acidi delle tintorie, ma anche nei salotti bene dove cameriere solerti obbediscono in tutto ai desideri dei padroni.

Ada Negri coglie questa solitudine, che è più tragica quando si vive in coppia e ci si sente assolutamente soli perché non compresi, distanti dall’altro. La morte aleggia su queste creature, portatrice di una libertà definitiva, assoluta.

Ma lo scioglimento di quelle catene si ottiene con l’apertura alla cultura ed alla creatività: “Veronetta scriveva, vegliando la salma della madre; e in quel modo ella pregava per lei”. Forte, capace di non farsi comprare e di rifiutare ogni offerta, Veronetta un giorno “ricopiò molti fogli del manoscritto, li mise in una busta e vi unì una lettera. Scrisse, sulla busta, il nome d’un celebre critico”. Figura conclusiva di donna che suggella un nuovo percorso, e apre alla speranza.

Bella la prosa di Ada Negri, con i ritmi narrativi e il registro linguistico che abbiamo ormai alle spalle, ma da cui ci lasciamo volentieri riconquistare. Con splendide aperture sul paesaggio: “L’alba frizzante, a lunghe strisce gialle e rosse nel cielo, fluttuava in veli di bruma lungo i pendii delle montagne, svegliava il torrente, frusciava fra la ramaglia, fumava dai comignoli delle casupole sparse, attendendo di fumar fra breve dalle ciminiere degli opifici. Squillava la sua diana coi fischi delle fabbriche; e scopriva, al graduale avanzar della luce, vette nevose, chiome di foreste ove spesseggiavano castagno e quercia, profili di colmigni, larghi tetti a cristallo di padiglioni americani, razzanti ai primi raggi del sole”.

 

Marisa Cecchetti


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