In questa puntata voglio ricordare l’autore coreano Kim-Ki Duk, morto la settimana scorsa per Covid, parlandovi di uno dei suoi film più noti, quello che, presentato nel 2003 al Festival di Locarno e poi al Sundance Film Festival, diede al suo autore notorietà internazionale.
Il film si intitola Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera; e il titolo, che in apparenza si riferisce soltanto alla ciclicità delle stagioni, allude in effetti al ciclo delle vicende umane; e non soltanto all’ovvio ciclo delle età dell’uomo, per il quale i bambini diventeranno vecchi mentre nuovi bambini nasceranno. Ma soprattutto al ciclo della caduta e della redenzione, secondo il quale raggiunge la purezza, una forma di santità, chi è sprofondato nel peccato, ne ha avvertito fino in fondo la disperazione e la vergogna, ma poi ha trovato la forza per risollevarsi.
È insomma un film “informato” da un’ideologia religiosa. Ma se io ho parlato un po’ impropriamente di peccato, si tratta in effetti di una religiosità non cattolica, ma esplicitamente, dichiaratamente, buddhista.
Il racconto si svolge in uno scenario eccezionalmente suggestivo: in un santuario di legno dedicato a Buddha, costruito apposta per il film, nel mezzo di un lago; cosicché per raggiungerlo, quando il lago non è ghiacciato, occorre servirsi di una barca.
Vivono nel santuario un anziano monaco, e un bambino affidato alle sue cure. Il racconto verte essenzialmente sull’azione pedagogica del monaco nei confronti del suo giovanissimo discepolo. Questi, come tutti gli uomini che non si sono ancora purificati delle proprie passioni, è incline alla malvagità. Ed ecco che si diverte a torturare degli animali. E il monaco, a sua volta, in una misura omeopatica, maltratterà analogamente il bambino, per insegnargli la fraternità fra tutte le creature viventi, che sono tutte soggette al dolore e aspirano alla felicità.
Ma l’episodio centrale del film avviene quando il discepolo è divenuto ragazzo, e viene ospitata nel santuario una donna misteriosamente malata, che il monaco avrebbe il compito di guarire.
Ora, il film di Kim-Ki Duk, come tutti i film dominati da una chiara ideologia, e che in virtù di quell’ideologia vogliono impartire un insegnamento morale, è un film che soffre di una certa schematicità dimostrativa. In particolare vuole dimostrarci che la passione, il desiderio, conducono inevitabilmente al dolore, e peggio ancora: alla perdizione.
Ma in questo episodio del racconto, il film ha una felice contraddizione. Perché quella ragazza malata sarà guarita dal sesso.
E cioè: il giovane discepolo, vincendo mille timori essendo lui del tutto inesperto di donne e sentendo incombere su di sé il modello ascetico del maestro, troverà tuttavia il coraggio, un modo, per sedurre la ragazza. E proprio perché la breve storia della loro passione si svolge in un contesto di pura repressione, oltre a essere intagliata nella sua progressione psicologica con grande esattezza, è tra gli episodi più intensamente erotici che si possano trovare in un film.
Va detto che l’intento dimostrativo riprenderà presto le redini del racconto. Ma essendo Kim-Ki Duk in questo film un poeta prima che un predicatore, anche quando racconterà la fase della caduta, della dannazione (che precedono la redenzione), riuscirà a cogliere momenti di profonda verità esistenziale.
Da vedere, in DVD o su Youtube.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 19 dicembre 2020
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