Non avevo ancora 12 anni. Arrivò un telegramma e subito ci si preparò al peggio. Allora non c’era ancora l’uso del telefono nelle case, e solo in caso d’urgenza, legata in genere a qualche disgrazia, si spediva il telegramma. Una mia zia, sorella di mio padre, era morta cadendo da un albero di fichi, e il giorno dopo ci sarebbe stato il funerale, al paese. Non c’era tempo da perdere.
“Prendi la bicicletta e andiamo ad avvisare tuo padre” ordinò mia madre, e subito partimmo, io in piedi sui pedali e lei aggrappata a me sul sellino. La bicicletta era viola e mi era stata regalata per il decimo compleanno, una bicicletta da bambini.
Abitavamo al quartiere Folgarella a Ciampino, e mio padre lavorava in una cava di pietra sull’Appia Antica. C’era tanto da pedalare, per strade pericolose già molto trafficate all’epoca.
Superato il passaggio a livello, dirimpetto all’ingresso militare dell’aeroporto, presi per l’Appia e curva dopo curva, a testa bassa, con le braccia di mia madre che mi strizzavano lo stomaco e la sua voce che non finiva di raccomandarsi a tutti i santi, andavo avanti colando sudore.
Appia Nuova, via di Fioranello, incrocio con l’Appia Antica, e la biciclettina col suo doppio carico che balla sul basolato spezzandoci la schiena.
Pedala e pedala in direzione Roma, e quando sulla destra appare una torre che troneggia su un’altura, mia madre dice “svolta qui, che siamo arrivate” e io con l’ultimo fiato eseguo, e ci ritroviamo nello spiazzo erboso sul retro della torre, delimitato da un muretto.
E mentre appoggio a terra la bicicletta e vi cado sopra, col cuore che pare voglia scapparsene per suo conto, sento il grido di mia madre: “Anto’!”. Un grido che fa scappare gli uccelli dalla torre e scuote l’aria riecheggiando.
Antonio è mio padre, e maneggia dinamite. In qualità di capo minatore è responsabile della sua squadra, e mai sotto la sua guida è capitato qualche incidente.
Ripreso fiato, mi accosto a mia madre. E guardo avanti a me, accecata dal sole di un giugno torrido. Un abisso e di fronte, massiccia e sterminata, una parete lucente con un puntino nero che sembra una formica che annaspa. E seguo correndo mia madre per il viottolo scosceso che porta all’interno della cava.
“Anto’!” E mio padre si volta. Sì, è proprio mio padre. Legato a una corda, i piedi puntati alla roccia, mazza e scalpello fra le mani, cerca di mettere a fuoco la provenienza di quella voce che lo chiama, che lo invoca, e fra tanta luce a me sembra di scorgere quella del suo sorriso.
In quel momento afferro in pieno l’eroismo quotidiano di mio padre, l’ansia perenne di mia madre, che si fa angosciosa quando l’esplosione delle mine fa tremare, due volte al giorno ‒ a mezzogiorno e alle quattro del pomeriggio ‒ anche i vetri delle finestre di casa, a distanza di tanti chilometri.
In quel momento finisce la mia infanzia e la sfida giornaliera dei miei genitori diventa anche la mia: arrivare a sera soddisfatti del proprio operato e pronti e ricominciare il giorno dopo, con rinnovata tenacia.
Maria Lanciotti