Bob Gluck
Miles Davis il Quintetto Perduto e altre rivoluzioni
Ttraduzione di Giuseppe Lucchesini,
a cura di Claudio Sessa
Chorus, 2020, pp. 336, € 25,00
Dal 12 novembre è in libreria questa novità succosa e interessante. Riporto le note della casa editrice e un breve commento per ingolosire gli appassionati.
“Questo non è un libro su Miles Davis”. Così esordisce, spiazzandoci, Claudio Sessa nella prefazione all’edizione italiana del libro. E ha ragione da vendere, perché parliamo di una storia che, pagina dopo pagina, apre ad una galleria ricchissima di protagonisti. Non solo il Quintetto Perduto di Miles: quello con Shorter, Dejohnette, Corea e Holland. Formazione stellare, vero e proprio laboratorio aperto che attraversa “sottotraccia” tutto il 1969 e parte del 1970 (gli anni di “In a silent way” e di “Bitches Brew”) con concerti in tutto il mondo, senza mai entrare in studio d’incisione. Ma anche altre esperienze che oltrepassarono ogni linea di confine del Jazz per arricchire la tensione sperimentale dell’epoca. All’interno di queste, ecco emergere musicisti come Anthony Braxton, Barry Altschul, Wadada Leo Smith, Leroy Jenkins, Keith Jarrett, Joe Zawinul, Sirone, Jerome Cooper, Alvin Curran, Richard Teitelbaum, Rzweski, Giuseppe Chiari, Morton Feldman; oppure formazioni (Circle, Revolutionary Ensemble, Musica Elettronica Viva) che si muovono su uno sfondo profondamente segnato dalla lezione di Ornette Coleman, John Coltrane e Muhal Richard Abrams; ma anche di quella di Schönberg, Cage, Stockhausen, Steve Reich. I punti di contatto fra tante avventure sonore compongono l’affresco creativo di una stagione speciale. Una stagione che ebbe senz’altro: “come luminoso e volubile arbitro Miles Davis. Dunque, questo è un libro su Miles Davis.” È proprio così che Claudio Sessa, capovolgendo la premessa, chiude la sua prefazione, continuando a sorprenderci.
Il Village Gate come incubatrice
In seguito, quella primavera (1969), Davis prenotò il Village Gate, un club sulla Bleecker Street del Greenwich Village, per diverse esibizioni. Era il locale giusto per mettere a punto la sua nuova formazione (il Quintetto Perduto) prima di portarla in tour. Il trascinante “Miles Runs the Voodoo Down” fu presentato nel corso di queste serate, a integrazione del repertorio del precedente quintetto. Fu il primo brano fra quelli concepiti per apparire sull’album Bitches Brew. Guidato da Davis, uomo attento alla moda, il gruppo vestiva i più recenti abiti mod, una scelta coerente con la loro musica, sempre più elettrica e avventurosa, e con il contesto del Village.
Il critico Richard Williams riferì: «In questi giorni Miles indossa gilet di pelle scamosciata con le frange e sciarpe indiane stampate a fiori, ma la cosa importante è che veste con un’eleganza naturale, mille miglia lontana dal dirigente col doppio mento che va a ballare il frug per cercar di restare al passo con ciò che piace a chi è giovane e disinteressato al denaro».
Wayne Shorter ricorda in particolare una sera: «Indossavo un gilet spagnolo di cuoio e stivali da motociclista col tacco, di due colori differenti, marrone e nero, stivali da conquistador spagnolo a cavallo. La gente del pubblico guardava me e Miles, e dopo lo spettacolo si chiedeva: “Quale dei due è Miles?”». Chick Corea indossava una «fascia viola fermacapelli e calzoni blu di velluto a coste, e aveva collocato sulle sue tastiere una bacchetta d’incenso accesa; Dave Holland, con i suoi lunghi capelli ricciuti, aveva una camicia di velluto con le frange».
Roberto Dell’Ava
Illustrazione in allegato (Fotografia di Jan Persson)
Chick Corea, assorto nella sua performance alla tastiera del piano elettrico Fender Rhodes Rhodes. La copertura è stata rimossa, mettendo così in evidenza le barre metalliche del meccanismo. Con il Quintetto Perduto di Miles Davis, nel 1969.