La recente decisione del governo italiano, e poi del governo francese, di chiudere i cinema e i teatri per via dell’emergenza sanitaria, mi ha richiamato alla memoria un classico del cinema, un film che raccontava la vita nei teatri al tempo della Seconda Guerra Mondiale, e in particolare nella Parigi già occupata dai tedeschi.
Il film si intitola L’ultimo metrò; fu diretto nell’80 da François Truffaut, interpretato da Catherine Denueve e Gerard Depardieu nei ruoli dei protagonisti, ed è oggi visibile su varie piattaforme digitali come Chili e Amazon Prime Video.
Andare al cinema o a teatro nella Parigi dei primi anni Quaranta rievocata dal film, non era certo agevole e privo di rischi. Lo spettacolo poteva essere interrotto dalle sirene che preannunciavano i bombardamenti aerei, o dall’improvvisa mancanza di energia elettrica. All’uscita ci si poteva imbattere in una retata dei tedeschi, e bisognava comunque correre nei tunnel della metro per prendere appunto l’ultimo metrò, dato il vigente coprifuoco a partire dalle 11 di sera.
Eppure, racconta il film di Truffaut, non per questo i parigini rinunciavano ad affollare le sale cinematografiche e teatrali. Certo perché – nel clima tragico che pervadeva Parigi, la Francia occupata per metà, e anche l’Europa e quasi il mondo intero – il teatro doveva essere percepito dagli spettatori come una risorsa necessaria quasi quanto il cibo, un modo per aggrapparsi alla vita contro la morte incombente.
Il film di Truffaut è ricco di sfumature, di sottigliezze. E la sua descrizione affettuosa, non priva di umorismo nonostante il contesto storico, della vita di una compagnia teatrale – quella che, si racconta, gestiva il Teatro Montmartre – non cade nel difetto ideologico di fare del teatro un’isola felice rispetto alla brutalità, all’orrore, alla delirante idiozia, della società circostante.
Se i parigini scrivono a centinaia lettere anonime per denunciare alle autorità la presenza di ebrei, anche i teatri giungono a compromessi, sia pure a collo torto, con i tedeschi e con i collaborazionisti francesi. Così accettano di scritturare soltanto attori che dichiarino sul contratto di non avere genitori o nonni ebrei. Per ottenere i visti della censura, e magari recensioni favorevoli, devono ingraziarsi i critici teatrali più spregevoli, quelli che proclamano alla radio e sui giornali che anche il teatro deve essere purificato dal morbo ebraico.
Eppure tra le fila degli attori, dei registi, delle maestranze del teatro alita ancora il piacere di vivere: dovuto al gusto di mettere in scena un nuovo spettacolo; ma anche al libertinaggio che si anima dietro le quinte. Se l’omosessualità, maschile e femminile, è perseguitata nel mondo esterno, nel teatro ha modo di manifestarsi, ora in quiete convivenze, ora in passioni drammatiche. E il finale del film accenna alla nascita di un felice rapporto a tre, tra la prima attrice e direttrice del teatro, suo marito regista, e il primo attore.
Il regista è ebreo. Non essendo riuscito a fuggire da Parigi, vive prigioniero in una cantina del teatro. La mancanza di occupazioni rende la sua prigionia disperante, nonostante la notte la moglie lo vada a trovare, e possa leggere o ascoltare la radio. Ma la sua clausura ha una svolta quando scopre una conduttura che collega la cantina al palcoscenico, grazie alla quale potrà ascoltare le prove degli spettacoli e, con i suoi appunti che trasmette alla moglie, condizionarle e regolarle. Questa possibilità creativa è per lui come l’ossigeno che lo fa sentire vivo e gli consente di attraversare moralmente indenne i lunghi mesi che lo separano dalla fine della guerra.
Si dice che i classici hanno sempre qualcosa da insegnarci.
Dall’Ultimo metrò si potrebbe trarre una morale riferita alla situazione attuale: che anche in circostanze eccezionali, teatri e cinema non dovrebbero essere tra i primi a chiudere, ma, se proprio necessario, semmai tra gli ultimi.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 31 ottobre 2020
»» QUI la scheda audio)