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Gemito. Dalla scultura al disegno 
Al Museo di Capodimonte con Maria Paola Forlani
03 Novembre 2020
 

Il destino di Vincenzo Gemito scultore, pittore e disegnatore di straordinario talento è condiviso da Napoli e Parigi, dove sé già tenuta la mostra al Petit Palais a cura di Jean-Loup Champion, Maria Tamajo e Carmine Romano, con successo non prevedibile per un artista fuori dallo star system dell’Ottocento-Novecento. Ora il maestro torna nella sua città, al Museo di Capodimonte, con un allestimento di felice qualità. Di qui il titolo della mostra “Gemito. Dalla scultura al disegno” (fino al 15 novembre).

Vincenzo fu abbandonato dalla madre il 7 luglio 1852 nella “ruota degli esposti” del convento dell’Annunciata: fu accolto da una famiglia povera e buona: presto mostrò che la sua vita era segnata dal destino dell’arte. A solo 17 anni scolpisce il Giocatore e a 23 i busti di Morelli, Verdi e Michetti, che divenne suo amico. Si lega ad artisti sradicati e anticonformisti, ma la sua formazione è nella strada tra i vicoli della città, scoprirà il Museo nazionale Archeologico e lì attinge con una incredibile voracità dall’Antico. La sua prodigiosa attività si snoda su un fil rouge che parte dai presepi della tradizione napoletana dei pastori di San Gregorio Armeno e giunge al prodigio della scultura alessandrina. Una vera passione che l’accompagna per tutta la vita fino alla tarda terracotta con il busto di Alessandro Magno (1920-25) e alle tante ‘Meduse’. L’enorme successo del busto di Giuseppe Verdi, realizzato quando il maestro nel 1872 tenne la prima dell’Aida al San Carlo, gli apre le porte di Parigi per l’Esposizione universale del 1878. Qui presentò il Pescatore napoletano che porta al petto il pescato ed è tra le più celebri opere di Gemito, con il Fiociniere, il Malatiello, l’Acquaiolo, il Pastore degli Abruzzi, omaggio al suo amico Michetti. La critica non fu favorevole al Pescatore, ma il successo di pubblico gli conferì un alone di celebrità. Sculture “realiste” certo, ma non accademico. In mostra c’è una Ballerina di Degas, che Gemito conobbe a Parigi quando vi giunse con Antonio Mancini, con il quale condividerà lo studio nel convento di Sant’Andrea delle Dame, nei pressi dell’Accademia di Belle Arti dove studia la collezione dei gessi.

Nel 1872 incontra Mathilde Duffaud, modella francese più grande di lui di nove anni. Se ne innamora e la porta al Mojariello. Il ritratto di lei in terracotta resta tra i suoi capolavori. Quando l’artista va a Parigi, Mathilde lo raggiunge malata. Lui fa di tutto per curarla. Rientrati a Napoli, le condizioni di salute della donna precipitano: lei muore nell’aprile del 1881. A sculture e disegni assai intensi di questa bella donna è dedicata una sezione della mostra. Sconvolto dalla morte di lei, l’artista si rifugia a Capri e disegna tanto: è la sua terapia. Nel 1882 incontra Anna Cutolo, che conosciamo anche nel ritratto Donna con ventaglio di un caposcuola come Domenico Morelli. Dal loro matrimonio nasce la figlia Peppinella, presente in tanti disegni e sculture, poi valida collaboratrice di un padre così strampalato. Anna è soggetto privilegiato: a lei è dedicata una sezione della mostra che fa pendant con quella di Mathilde. Ma il destino è barbaro e Nannina tra atroci sofferenze si spegne nel 1906. Gemito con uno spietato senso della forma la ritrae nella sua lunga agonia. La salute instabile di Gemito, le sue turbe psichiche lo portano periodicamente in case di cura. Nel 1883, con l’aiuto del barone belga Oscar du Mesnil, di cui farà un busto in bronzo (1885) e tanti ritratti, apre una fonderia a Margellina. La sua opera è testimonianza della consapevolezza di quanto accade nell’arte europea. Si pensi solo allo straordinario Autoritratto (1915) in terracotta che sembra uscito dal crogiulo dell’Espressionismo, ma tanti sono i rimandi alla modernità, visto che Gemito muore nel 1929.

Nel 1885 il re Umberto I gli commissiona la colossale statua di Carlo V per una nicchia della facciata del Palazzo Reale, ma la sua salute mentale torna a vacillare. Finora lo scultore ha rappresentato solo scugnizzi, le sue donne, gente del popolo e illustri contemporanei, ma mai una statua di soggetto storico di proporzioni colossali in marmo, materiale che non ama. Gemito non è al suo meglio, non è uno scultore cesareo come Antonio Canova. In mostra ci sono i modelli in gesso e bronzo del Carlo V. Quando il marmo viene collocato nella nicchia, Gemito si avvede di un errore nella posizione dell’indice allungato della mano destra e lo fa correggere: il dito in gesso, nelle dimensioni del marmo, è stato donato nel 2018 al Museo di Capodimonte. L’artista ha una forte sensibilità autocritica e l’angoscia che segue a questa commissione lo prostra profondamente. Il suo stato mentale è tale che il maestro viene ricoverato in una clinica psichiatrica. Dopo una lunga degenza, si richiude nella casa di via Tasso, in un esilio volontario per vent’anni.

Così scriveva nel marzo 1928: «Se all’artista manca la cognizione del passato non potrà mai fare un capolavoro». Con questo sogno, nel marzo successivo, Gemito chiuse gli occhi: aveva settantasette anni. Con lui e con Medardo Rosso, la scultura aveva trovato i suoi valori più sicuri, la sua piena libertà espressiva oltre le ultime resistenze dei pregiudizi estetici, ideologici e accademici. Nel più giusto senso della parola era cioè diventata scultura contemporanea.

 

M.P.F.


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