In età ormai matura, il poeta tenta di ricostruire il nido familiare. La campagna intorno al nuovo nido di Castelvecchio di Barga, che diventa la sua nuova patria (Maria, dolce sorella: c’è stato un tempo che noi non eravamo qui?), gli fornisce nuova materia poetica, collegandosi idealmente con la campagna intorno a S. Mauro di Romagna. La scelta del tema campestre o paesistico non avviene indipendentemente dal trauma che condiziona tutta la sua vita, sia perché al paesaggio campestre sono legati i ricordi della sua adolescenza felice sia perché da quel paesaggio egli ora si sente definitivamente escluso. La frattura definitiva tra passato e presente implica la frantumazione delle rievocazioni in una serie di impressioni apparentemente slegate, le immagini diventano il segno della felicità perduta e si caricano di un valore simbolico. La natura prende vita nelle forme verbali che la identificano e comunica con vario cromatismo realtà e stati d’animo, per cui il frinire delle cavallette diventa il suono di “finissimi sistri d’argento” e rievoca un’immagine di morte. Un aratro senza buoi in un campo allude alla solitudine: Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggiero. / E cadenzato dalla gora viene / lo sciabordare delle lavandaie / con tonfi spessi e lunghe cantilene (“Lavandare”) e richiama Il ponte levatoio in Arles con un gruppo di lavandaie di Van Gogh. La parola poetica alterna le sensazioni di silenzio, solitudine, abbandono della prima strofa ai rumori, canti, voci della seconda, per riflettere specularmente nella terza, attraverso il madrigale (quando partisti, come son rimasta! / come l’aratro in mezzo alla maggese) l’immagine dell’aratro in quella della donna abbandonata. Se il nido si associa al tema della casa come culla, protezione, sicurezza, la siepe diventa il baluardo del nido, disegna il confine tra il dentro, percepito come rassicurante, e il fuori, che rappresenta il pericolo, l’insidia, la violenza. Non limite visivo che suscita la meditazione sugli interminati / spazi… e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete di leopardiana memoria, ma siepe che al campo sei come l’anello al dito… / …che il passo chiudi co’ tuoi rami / irsuti al ladro… / verde muraglia della mia città… / immobile al confine… / fuori, dici un divieto acuto come spine / dentro, un assenso bello come fiori (“La siepe”). Anzi, la siepe / dell’orto disegna una barriera difensiva contro la realtà di sofferenza (Nebbia) e dialoga con la siepe del camposanto dov’è sepolta la madre del pellegrino, da cui egli taglia il bordone che lo accompagna tutta la vita (Il bordone) in relazione a L’orto di A. Sisley.
La novità del linguaggio e la percezione del mistero: Pascoli utilizza il linguaggio fonosimbolico dell’onomatopea: chiù dell’assiuolo, gre gre di renelle, don don di campane…, e i linguaggi tecnici, speciali: il critico G. Contini individua in queste scelte il sintomo di «un rapporto critico» fra «l’io e il mondo». Pascoli proclamò il fallimento della scienza positiva, che non era riuscita a squarciare il mistero e a sconfiggere la morte. Sempre Contini afferma: «Quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo… in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi… tra l’uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti». Ma Pascoli ha rotto la frontiera tra determinato e indeterminato: la precisione del tessuto linguistico rappresenta la rete entro cui imbrigliare una realtà che sfugge, che diventa incomprensibile e che solo il poeta-fanciullo può cogliere nelle sue valenze più nascoste, disvelandone gli aspetti illusori. Così il pianto di stelle nella notte di San Lorenzo sancisce la distanza tra il Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale e la terra, l’esperienza concreta degli uomini, quest’atomo opaco del Male: la sofferenza individuale si rispecchia nella tragedia dell’esistenza umana a cui la natura resta indifferente, immagine che richiama Notte stellata di V. Van Gogh. Il quadro è per l’artista ciò che la poesia è per Pascoli: un pretesto per stabilire il proprio rapporto con la realtà e le cose. L’opera fu composta dopo una profonda crisi esistenziale: il turbinio vorticoso delle pennellate testimonia l’angoscia dell’artista e la profondità con cui egli apprezza la bellezza del mondo Sarebbe così bello / questo mondo odorato di mistero (“Colloquio”) Ma bello è questo poco di giorno / che mi traluce come da un velo (“L’ora di Barga”). La nostalgia per un’adesione positiva al reale, nonostante la sua sostanziale inconoscibilità (confronta la fronte / bianca di sfinge in “Paese notturno”), simbolo del mistero della vita, rimane una tensione presente nell’animo del poeta e prevale la sensazione di inquietudine e mistero nella rappresentazione della realtà: Venivano soffi di lampi / da un nero di nubi laggiù; / veniva una voce dai campi: / chiù… (“L’assiuolo”). La prepotente sinestesia (soffi di lampi) e l’oggettivazione della qualità cromatica (nero di nubi) ben sintetizzano il pericolo imminente, a cui fa eco la voce dell’assiuolo, che si trasforma prima in un singulto e poi in un pianto di morte.
Ancor più in “Scalpitio” il risuonare di un galoppo da remote lontananze, induce un moto di sgomento. L’annuncio del temporale (nell’omonima poesia), un bubbolio lontano, fa presentire qualcosa di tragico che sta maturando misteriosamente nel grembo della natura; all’effetto fonosimbolico anche in questo caso si unisce il forte contrasto cromatico, quasi espressionistico: rosseggia, affocato, nero di pece, stracci di nubi chiare, tra il nero, un casolare, un’ala di gabbiano. La situazione drammatica si accentua nella poesia “Il lampo”, in cui la natura acquista i connotati tragici della sofferenza umana: la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto. E la tragicità è accentuata dal pauroso silenzio in cui l’azione avviene, il tacito tumulto, contrastato però dalla violenza delle allitterazioni di suono duro che percorrono tutto il testo. L’apparizione della casa, rapida come suggerisce l’asindeto (apparì sparì) viene associata all’occhio che riesce per un attimo a guardare nel mistero che ci circonda, rivelando una realtà tragica (la notte nera). La nebbia costituisce il simbolo della visione velata del mistero profondo che nasconde la realtà: E guardai nella valle: era sparito / tutto! sommerso! Era un gran mare piano, / grigio, senz’onde, senza lidi, unito. / E ancora: …Vidi, e più non vidi, nello stesso istante. (“Nella nebbia”). Anzi, la nebbia diventa sinonimo di difesa contro la consapevolezza del dolore del vivere: Nascondi le cose lontane, / nascondimi quello ch’è morto! / le cose son ebbre di pianto!, nebbia che cela come Nebbia di Cecconi. Per il critico G. Contini, “Nebbia” è una poesia «che può essere perfettamente citata come allegoria generale del mondo pascoliano». In realtà, Pascoli giunge a indicare, attraverso la parola poetica, una via d’uscita: se la vita dell’uomo è segnata dal dolore, dal mistero, dalla morte e si è smarrito il senso della provvida sventura non resta che il legame di fraternità tra simili: Uomini, pace! Nella prona terra / troppo è il mistero; e solo chi procaccia / d’aver fratelli in suo timor, non erra (“I due fanciulli”).
Conclusioni: Con questo lavoro, abbiamo tentato di costruire un percorso sinergico tra linguaggio poetico e linguaggio figurativo, poiché la Storia dell’Arte non è materia curricolare nel nostro Istituto Tecnico ma grazie a questa esperienza, abbiamo avuto l’occasione di arricchire l’orizzonte delle nostre conoscenze con gli elementi pittorici, cogliendone l’immediatezza espressiva attraverso la pittura dei Macchiaioli e quella en plein air degli Impressionisti, per approdare a quella dei Simbolisti che, con l’uso particolare del colore, caricano la realtà di un proprio significato e comunicano, come fa Pascoli con il linguaggio poetico, la loro visione del mondo.
Questo percorso ci ha consentito di conoscere Pascoli più da vicino e di scoprirne la profonda sensibilità di uomo e di poeta. Scoprire, in fondo, che Pascoli non è solo il poeta “lacrimoso”, come spesso è stato definito, ma un uomo che, attraverso la poesia, denuncia una società che, allora come oggi, disattende le attese, specialmente dei giovani. Noi ci siamo riconosciuti nelle ansie e nel disagio esistenziale dei momenti più bui della sua vita, soprattutto nello scontro tra illusione e realtà, una verità fortemente esplicitata da altri poeti prima e dopo di lui. Ma abbiamo anche colto i bagliori di una vita che deve e può continuare: alla fine di “Temporale” (Myricae) troviamo l’immagine dell’ala di gabbiano, che analogicamente col casolare si staglia sul nero di pece. Similmente in “Temporale” (Canti di Castelvecchio) appare una chioccia: …passa sotto / l’acquazzone una chioccia. / Appena tace il tuono, / …tra il vento e l’ acqua, buono, s’ode quel coccolare / co’ suoi pigolii dietro. Ancora una volta, la natura (in questo caso il gabbiano e la chioccia) allude simbolicamente a una realtà profonda, ma indicando una possibilità positiva. Per questo ci sembra in sintonia chiudere la nostra riflessione con Il seminatore di Van Gogh, in cui i colori esprimono la forza vitale, il seminatore semina speranze per una vita migliore, mentre un enorme sole diventa il simbolo di spiritualità e di vita.
Anna Lanzetta