Uno dei sentimenti che ricorre nel cinema statunitense forse più che in ogni altra cinematografia, è l’indignazione rispetto all’ingiustizia; specie quando l’ingiustizia non è ritenuta tale in base a un criterio personale, soggettivo, dell’autore del film; ma in base ai principi della Costituzione degli Stati Uniti, o comunque in base alle leggi in vigore in quel paese che però, si constata, non sono a volte correttamente applicate.
La tensione di una rabbia crescente per una cattiva, pessima amministrazione della giustizia, percorre per intero, ed è anzi alla base, di un film distribuito da Netflix, prima in alcune sale cinematografiche, e da ieri sulla piattaforma digitale, intitolato: Il processo ai Chicago 7 diretto da Aaron Sorkin.
Si tratta di un film storico, ambientato in America nel ’68, che racconta di un processo a carico degli organizzatori di una manifestazione di protesta contro la guerra in Vietnam. Gli organizzatori sono accusati, su diretto suggerimento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, di aver cospirato per una rivolta armata contro lo Stato.
Ora, il film fornisce già in apertura alcuni elementi di contesto storico; guarda con evidente simpatia ai fautori della manifestazione, che appartengono a un gruppo di studenti universitari, al movimento degli hippy, e alle Black Panthers, la storica organizzazione a difesa dei diritti dei neri. Ma più che di approfondire le loro ragioni, al racconto preme appurare la loro innocenza: se la manifestazione è degenerata nella violenza, è stato per gli attacchi della polizia contro i manifestanti.
E gli accusatori nel processo sono ben consapevoli che le imputazioni a carico degli organizzatori sono state mosse in malafede, per giustificare le violenze della polizia e per screditare il dissenso contro l’impegno militare americano in Vietnam, che il nuovo presidente Nixon intende proseguire.
Rispetto a tali premesse, spicca il personaggio negativo del giudice del processo, forse il vero protagonista del film. È con ogni evidenza un giudice fazioso, forse corrotto, che ha deciso a priori di condannare gli imputati; che non si cura di obbedire alle regole di un giusto processo.
La sua decisione più grave è di condurre il processo malgrado l’avvocato difensore dell’imputato nero sia malato in ospedale. E alle ripetute, veementi proteste in aula di quell’imputato, che reclama il proprio diritto a una difesa, lo fa trascinare fuori dell’aula perché sia trattato come si merita: e cioè, senza eufemismi, perché sia massacrato di botte.
Malgrado questa, e altre criminali scorrettezze, gli imputati e i loro avvocati conducono la loro battaglia processuale a colpi di diritto.
E una battuta-chiave del film è la dichiarazione in aula di Abbie Hoffman - un leader degli hippy - che giudica altissime le istituzioni democratiche, e afferma di lottare contro gli uomini orribili che le occupano.
Il processo ai Chicago 7 è un racconto popolare, in cui i personaggi tendono ad essere convenzionali. I buoni, e cioè gli imputati, sono simpatici, spiritosi, entusiasti, generosi, sempre solidali tra loro; mentre i cattivi risultano subito ipocriti e perfidi.
Eppure, grazie anche alla brillantezza dei dialoghi e alla grande bravura degli attori, quel meccanismo narrativo elementare ma quasi sempre efficace, che è la lotta dei giusti contro l’ingiustizia, riesce ad avvincere e ad emozionare lo spettatore per tutta la lunga durata del film.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 17 ottobre 2020
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