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Gianfranco Cercone. “Padrenostro” di Claudio Noce
05 Ottobre 2020
 

C’è una teoria della letteratura che distingue il senso del messaggio letterario, dal suo significato.

Il senso sarebbe più sfuggente, più ambiguo, suscettibile di svariate interpretazioni. Il significato sarebbe più definito, più circoscritto, più univoco.

Ogni opera letteraria ammetterebbe allo stesso tempo un significato più preciso e un senso più vago.

So di semplificare e forse di abusare di questi concetti. Ma volendoli comunque applicare al cinema, e in particolare a un film: Padrenostro di Claudio Noce – il film per il quale Pierfrancesco Favino ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile al festival di Venezia – sarei tentato di attribuire la predominanza del senso a una parte del film, la più estesa; e la predominanza del significato a un’altra parte del film, quella in cui si tirano le somme del racconto, si indica quale sia la morale che dovremmo trarne.

Il racconto è ambientato nell’Italia degli anni Settanta, quella in cui imperversava il terrorismo. Il racconto, di ispirazione autobiografica, riferisce di un attentato a mano armata compiuto contro un magistrato, dal quale costui esce ferito ma vivo. Il punto di vista dal quale l’episodio è raccontato è quello del figlio dell’uomo, ancora bambino, che assiste alla sparatoria senza però rendersi conto delle ragioni per cui è avvenuta e delle sue conseguenze, privato com’è dalla madre dell’accesso al televisore, l’unica fonte di informazione per lui (ma una volta riesce a guardarlo di nascosto), lontano dal padre e a lungo tenuto lontano anche dalla scuola.

Quel fatto di sangue, tanto concreto e reale, sembra colorarsi nella sua fantasia dell’atmosfera degli immaginari terrori infantili. E allo stesso tempo di quell’attrazione per le storie cruente che spesso si ritrova nei giovani della sua età.

Trova poi il modo di introdursi nella sua vita un ragazzo che non è un compagno di scuola, è di qualche anno più grande di lui, non appartiene a una famiglia benestante, anzi, a suo dire, non ha nemmeno una famiglia e dorme per strada.

Malgrado la loro diversità, e forse proprio in virtù di questa, si sviluppa fra loro un’intensa amicizia. Il bambino è attratto dal gusto per la trasgressione a cui lo introduce il ragazzo più grande, dal piacere del pericolo – tanto più seducente per lui che vive in un ambiente familiare che vorrebbe a tutti i costi proteggerlo; dalle scorribande notturne e dalle bevute di vino.

Ma insieme all’euforia, la presenza sempre più invadente di quello sconosciuto, suggerisce un senso di minaccia, che si acuisce quando un giorno, durante una gita in barca, in Calabria, insieme al padre del bambino che si è ricongiunto alla famiglia, quel ragazzo rivolge all’uomo domande ruvide, indiscrete, sulla sua professione: che fanno pensare che il ragazzo non ritenga quell’uomo “un eroe”, come gran parte dell’opinione pubblica; ma, come altri insinuano, piuttosto “un infame”.

Ora, finché il racconto si mantiene misterioso, ambiguo, sostenuto da una leggera suspense, perché non capiamo dove vada a parare, a momenti quasi fiabesco perché l’amicizia tra i due giovani sembra una variazione sul tema quasi mitico dell’amicizia del principe e del vagabondo, quel racconto riesce quasi sempre a interessarci e a suggestionarci. Il ritratto del bambino ha tante note indovinate, e il suo interprete, Mattia Garaci, ha un’espressività così varia, duttile, e precisa, che rivaleggia per abilità con il pur bravissimo Favino nel ruolo del padre.

Quando però capiamo che i due giovani sono rappresentanti delle due fazioni che si scontravano in Italia in una specie di guerra civile; che la loro amicizia vuole significare uno scioglimento del conflitto in virtù dei buoni sentimenti; che quell’amicizia, rinnovandosi nell’età adulta, vuole suggellare il superamento di una pagina tragica della storia d’Italia; possiamo anche approvare la morale che il film ci impartisce, possiamo perfino commuoverci, ma di fronte a un significato così semplice e chiaro, rimpiangiamo il senso più indefinito e suggestivo con cui il racconto ci aveva a lungo affascinato.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 3 ottobre 2020
»»
QUI la scheda audio)


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