Maria Perosino
Le scelte che non hai fatto
Einaudi, 2014, pp. 200, € 16,50
E certe volte sto male da quanto sento forte il desiderio di farlo, almeno una volta nella vita, di camminare a piedi nudi sul palcoscenico. È ridicolo, ma in quei momenti a essere ridicola mi pare la mia vita...
(Una amica di Maria Perosino)
La compagnia amara e dolce, diciamo gusto dolce amaro, o un amaro dolce, negli ultimi tre giorni di luglio è stata quella delle storie incrociate di Maria Perosino in Le scelte che non hai fatto (ed. Einaudi, 2014). Storie riuscite - raccontate all’esistenza che ci è stata data in dono, che forse mancano di un pezzo: un pezzo di perfezione un pezzo di sogno un pezzo di vita, di una esperienza o del tempo in più per pensare di fare un’altra esperienza quell’esperienza, con l'innegabile peso della domanda se avessi fatto così come vivrei adesso e con la risposta vera in cui credere ho scelto di fare questo e ne sono contenta, perciò la tengo così com’è questa mia vita. Storie di donne, direi riuscite, quelle incontrate narrate vissute nelle pagine della vita della Perosino, un libro scelto anni fa, scelto per il titolo lo ricordo bene, e letto solo adesso e non so dire perché, con le sue domande democratiche umane universali depressogene rivilitalizzanti, quelle del tipo come ci sono arrivata qui da dove sono partita cosa ho scavalcato cosa ho cavalcato cosa ho lasciato cosa ho trovato? Con le personali constatazioni con i conti finali con i ricordi del comò con i personali sono sola sono con me stessa ho un figlio ho una famiglia ho tanti amici so stare male e stare bene con me stessa. So interrogarmi, e non sempre rispondermi definitivamente. Insomma noi con le grandi domande.
«Mi piace che la nostalgia abbia le qualità di un profumo: dolce, intenso, persino stordente. Ma anche volatile. Fa presto a dissolversi nell’aria. Basta ricordarsi, di tanto in tanto, di aprire le finestre. Non per tutti è così. Per tanti, la nostalgia è rancida. E corrode. Si porta dietro il rancore, l’invidia. È una nostalgia cattiva quella per vite che non hai vissuto. È colpa dei sogni che s’infrangono. Dove? Quando? Perché? È colpa nostra o è colpa loro, dei sogni? Non parlo dei sogni dei bambini: da grande voglio fare il pompiere, l’infermiera, o “l’uomo della spazzatura”... No, parlo dei sogni che arrivano dopo, quando si hanno sedici anni o giù di lì. Quelli che vorrebbero accompagnarci sul palco di un concerto mentre suoniamo la chitarra, sul campo di basket a disputare la finale di campionato. Che ci vedono scrittore corteggiato da pubblico e critica, attore che cavalca le scene, modella, stilista, o anche pragmaticamente capo, manager, qualcuno che comanda e decide. Questi sono i sogni più insidiosi. Qualcuno, più fortunato o anche meno pigro, dipende, li insegue (ma è raro), oppure li lascia alle spalle. Inseguire i sogni è rischioso, e poi più che creare occorre sudare. Non sempre ne vale la pena, quasi mai. Più sensato è capire che di sogni si tratta, appunto, e prendere le giuste precauzioni, ossia: dedicarsi ad altro. Ma anche per questo occorre fatica. Il sogno è come un cespugio, ci si può nascondere dietro e dormire. Altri meno fortunati o forse solo più pigri, questi solo li inseguono fino a schiantarsi».
Un libro dell’esistere questo, dove si incontrano diversi modi di stare al mondo, ognuno con il proprio, avvenuto per quelle circostanze per quel carattere per quel sogno o per l'assenza di quei sogni perchè eravamo lì perché non eravamo lì perché potevamo partire volevamo partire perché volevamo fermarci non sapevamo andarcene perché ci innamoravamo perché non era successo di innamorarsi perché lui non si era innamorato di noi perché ci eravamo sposati perché gli studi ci portavano altrove e perché alcune scommesse si vincono con noi stesse, altre non si fanno neanche.
«Quello che sto cercando di dire è che anche se nessuno, almeno tra quelli che frequentiamo, ha una vita da film, in realtà c’è un film dentro ogni storia. Anche nelle vite più banali, sì, proprio in quelle che indossano i passeggeri stipati sul mio stesso tram: la signora di mezza età con l’amica, la donna peruviana con il passeggino, quel gruppo di adolescenti chiassosi sul fondo, l’impiegato al telefono e la ragazza pure al telefono. Anche l’altra, quella che sta ascoltando la musica, e anche l’operaio che sta leggendo la pubblicità di un corso in inglese. Ogni capitolo delle loro vite è più interessante di quello di un romanzo...».
Ho iniziato a parlare di questa tavola apparecchiata sulla narrazione della vita di queste donne ad alcune mie amiche, e mentre le spiegavo che sentivo un gusto di autunno – benché le temperature attuali siano innegabilmente quelle di una estate afosa, ho compreso il ruolo della Perosino, che mentre ne andavo a curiosare la biografia – e a cercarla sui social per inviarle la mia personale lettura, scoprendo che il libro le era postumo di due giorni, e allora ho capito qualcosa in più di lei del libro delle storie degli incontri che faceva sulla vita delle amiche della vita stessa, e ho compreso che in modo celato sulla propria, – colpita nei tempi di questa scrittura dalla malattia, l’autrice tirava le somme alle esistenze altrui perché della sua se ne stava facendo una rendicontazione emotiva, una sorta di bilancio divino.
Avevo infatti prima trovato ogni storia abbastanza completa, realizzata e direi riuscita bene, forse anche sempre troppo realizzata in un modo vincente, e pensavo che farne un resoconto simile lo si poteva fare sì a metà vita, a cinquanta anni come stava facendo lei, ma anche a ottanta, con scenari magari capovolti, ancora inimmaginabili prima, e che in fondo non c’era una vita distrutta in tutte quelle da lei incontrate, certo le sue partivano forse da vite senza fondamenta, ma tutte le sue protagoniste ne avevano fatta con i propri passi una costruzione salda, e avevo trovato troppo ottimista la prospettiva tracciata, ma anche troppo fortunata la cerchia delle sue conoscenze, quasi senza interruzioni sospensioni tragedie in esse, per poi ricredermi nel vedere, nel leggere fra le righe, che la vita più importante era quella sottaciuta, la sua, che attraverso le cene condivise con le altre donne ne aveva rimandato uno specchio della propria prossima a fermarsi, a interrompersi, con buche e scogli inevitabili nel proprio mare interiore, ma mai mancante di spezie e di buon vino per brindarci e per digerirne i bocconi più amari.
Alle amiche di Maria Perosino dedico pertanto la mia lettura, nell’aver visto lo sguardo clemente e avvolgente della loro amica scrittrice, che è come se avesse lasciato loro, e a noi, un testamento in cui ognuna possa non smettere di leggersi dentro, e di muoversi fuori...
«Mentre ascolto, penso che c’è un preciso istante in cui capiamo di non poter più archiviare le cose che non facciamo in un file <lo faccio dopo>. Per questo quelle cose, quelle che non abbiamo fatto ma ancor più quelle che non ci siamo permessi di sognare, diventano tanto importanti».
Barbarah Guglielmana