Il titolo è di per sé una guida alla lettura -Il moto perpetuo dell’acqua- nel suo evocare la liquidità di cui facciamo parte e che ci costituisce, acqua come vita, movimento.
I versi di Vailati cercano sempre la luce, la indagano su tutte le superfici – la distesa marina, gli scafi, le vele, la sabbia, il cielo col suo mutare nelle ore e nelle stagioni. Il mare gli offre lo spettacolo più ricco, con una “visione estatica dell’acqua”, nei montaliani mattini di cristallo, nelle voci che si moltiplicano come un sottofondo musicale che si associa all’onda, nella “smemoratezza estiva”, nella “sbornia estiva” della giovinezza. Ed anche nella luce della sera foscoliana, quando “il mare recede” e “presto/ inombra su file di scalmi e scafi”, quando “qualche traccia di memoria sciama,/ dalla scogliera richiama l’estremo/ ultimo azzurro e di sopra un rotondo/ biancore sul fondo del cielo si illuna”. Non è solo la sera a portare pace, anche “il mattino agostano dalle fauci/ cristalline annichilisce il pensiero”.
Tuttavia il mare non è la distesa d’acqua fascinosa che muta colore sotto la luce, ma contiene in sé la profondità del tempo e l’avvicendarsi della storia umana; l’onda è rischio ed insidia, aggredisce con “l’incessante moto”: “eccede l’orlo della cresta/ rabbiosa al largo -di sopra e di sotto/ l’onda- il coro di preci, degli ex voto”.
E soffia il vento a scompaginare tutto, porta un continuo mutare di sabbia, di cielo, di colori, di superfici, allo stesso modo in cui tutto muta nella vita, finché un giorno “dal clangore accecante dell’estate/ le rutilanti giostre assopiranno/ la giovane ebrietà”.
Lo scorrere del tempo -e il vento che ne diventa simbolo- dà il senso drammatico della nostra precarietà, senza possibilità alcuna di recupero: “infuria/ il vento a scompaginare in folate/ l’indomito ordine delle cose”. E il vento e il tempo limano la nostra esistenza di cui finisce per rimanere solo qualche “brandello di vita che resiste/ con fatica all’erosione”, mentre l’autunno incalza ed “ogni cosa è perduta nel frastuono che logora dilaga/ il moto perpetuo dell’onda, dell’acqua”. Con un recupero del pensiero leopardiano il tempo appare come una “divinità impietosa” indifferente alla rovina della umana sorte, alla nostra “precaria breve identità”.
Cariche di simbolismo si rivelano alcune brevi prose che separano -o congiungono?- la prima e la seconda parte della raccolta: in queste torna con prepotenza la ricerca di luce, anche ad illuminare il nostro sguardo incapace di leggere gli eventi -la cecità dello sguardo-. Il buio fa paura, quello della mente e quello intorno a noi.
La seconda parte ha una lettura più drammatica della realtà, che è colta in un vagare tra paesaggi acquatici diversi, dove il correlativo oggettivo montaliano fissa la sofferenza in immagini concrete, si tratti di falesie a strapiombo, di viali battuti dal sole, di aspra luce, di stralci di muri, di pioggia che dilava, di vetrosi varchi, di cupo inchiostro.
Si fa più evidente la consapevolezza del buio e della morte contrapposte alla luce ed alla vita, mentre riaffiora la nostalgia di mare -quella di Ulisse- che è nostalgia di esperienze sempre nuove, di sfida vitale, di movimento e luce. Ed appare la domanda inquietante che contiene la paura del vuoto, della fine, dell’oblio: “tu chiamerai il mio nome ancora?”
Marisa Cecchetti
Alessio Vailati, Il moto perpetuo dell’acqua
Biblioteca dei Leoni, 2020, pp. 80, € 10,00