Torna la poesia del napoletano Guglielmo Aprile con la nuova raccolta Teatro d’ombre. Riporta alla mente la sua silloge Il giardiniere cieco (Transeuropa edizioni), perché colpisce - come allora - una scelta linguistica e tematica che lo distingue. Anzi, forse le vicende ultime della nostra Umanità dolente hanno ulteriormente inciso sulla sua visione della realtà.
C’è la precarietà della vita, una condizione sospesa del vivere, un sonnambulismo che non ci fa percepire la concretezza, abbiamo gli occhi cuciti con “filo spinato sulle palpebre”. La vita è più una rappresentazione che un vissuto reale, come se fossimo marionette che recitano una parte assegnata e non scelta. Non siamo liberi dunque di scegliere, ma manovrati da una mano poco generosa, pazza quasi, che si diverte a staccare i pezzi, a far soffrire: “Dio dev’essere pazzo, oppure è un bullo/ codardo, non ha altro passatempo/ che seviziare con le lenti ustorie/ piccoli insetti e fiori”.
Tutto ciò mentre noi -ombre proiettate platonicamente sul fondo della caverna- ci sentiamo osservati, in una atmosfera surreale da Grande Fratello, da una faccia che ride e si fa beffa dei nostri tentativi di vivere, perché conosce bene ciò che ci attende: “un solo spettatore, alla fila più in fondo,/ che ha visto già troppe volte il finale/ e che al buio si sganascia dal ridere/ dei nostri gesti ciechi sullo schermo”. Ci indica malignamente il traguardo, in un percorso compiuto dentro vagoni chiusi, nel buio, quasi indirizzati ad un lager.
La maschera ci contraddistingue, nasconde ogni verità, ci è complice nella nostra abitudine a barare -impossibile trovare il varco montaliano, la falla- e nasconde il marcio che sta dietro le apparenze ed i blasoni.
La solitudine è assoluta e nessuno raccoglie il grido con cui reclamiamo di esistere: “il più antico dei gridi/ ha come padre il fondo di un cratere”. Il buio ci fa paura, da sempre, e aneliamo alla luce: “siamo falene, che fuggono, attratte/ da un chiarore sconosciuto e mortale”.
Siamo creature limitate, fatte senza pretese da una mano poco esperta. Il male è dovunque ed investe la Natura, anche essa finzione: “parrucche dalla complessa retorica/ quelle che gli alberi indossano, e coprono/ così la vergogna dei loro spigoli”. Persino il Sole è già visto nel momento in cui esaurirà il suo idrogeno, la luna ha una faccia ulcerata, uno sfregio sulla guancia. E il mondo “da qui a pochi passi/ potrebbe esplodere in un grande grido”. Anche i posti più attraenti nascondono pericoli perché possiamo trovare “la testa sfracellata della vipera/ sotto il banco della confetteria”.
La vita oscilla tra verità e sogno, tra realtà e rappresentazione, non offre gioia né amore. In realtà non esistiamo, siamo sogno, siamo “il sogno di una nuvola/ che passa”.
Eppure, in questa negazione generale, in questa quasi certezza che è tutto un gioco, che stiamo recitando, che stiamo sognando, potrebbe essere nascosta la via d’uscita: se tutto è un sogno, allora niente ci deve preoccupare; se siamo semiaddormentati da un imbonitore che ci crea illusioni, abbiamo ancora il tempo per destarci, per imparare a volare. Ma l’uomo deve prima “uccidere l’arcobaleno che lo incatena a queste forme brevi”. È una alta ricerca di spiritualità “in questo mondo che è/ il gioco ironico di un proiettore/ sullo sfondo di una parete scura./ riflesso prova approssimazione,/ carnevale che stordisce e innamora,/ farfalla che scompare tra le dita”.
Marisa Cecchetti
Guglielmo Aprile, Teatro d’ombre
Nulla Die, 2020, pp. 112, € 13,00