Chi ama la forma letteraria del romanzo avrà seguito in TV, il 2 luglio scorso, al Museo Nazionale di Villa Giulia di Roma, l’assegnazione dello “Strega”, tra i massimi riconoscimenti in Italia. Ad aggiudicarsi il Premio è stato Sandro Veronesi con il suo Il colibrì, edito da La nave di Teseo.
Lo scrittore, che conquista così, per la seconda volta, il titolo dopo il successo di Caos calmo nel 2006, era uno dei favoriti sin dall’inizio, anche se nelle ultime settimane la sua vittoria era data meno per scontata. Significative le sue parole: «Quando ho vinto per la prima volta diluviava. Era un’edizione particolare. Anche questa è molto speciale. Rendo bene in condizioni estreme». Ha dedicato il premio a «coloro che sono in mare e che cercano ospitalità nei nostri porti».
Conclusa la cerimonia, come sempre, sono iniziate le polemiche, i dubbi, i sospetti.
Molti si interrogano sull’utilità dei Premi in genere.
E poi i Premi letterari in Italia sono troppi? Svolgono tutti il compito di promuovere la letteratura italiana di qualità?
Pochi ne sono convinti mentre la maggior parte degli scrittori, dei giornalisti e dei piccoli editori sostengono che essi siano appannaggio delle principali, grandi case editrici italiane.
C’è chi sostiene che i premi sono inutili o meglio sono soltanto una passerella per intellettuali e politici, o uno scambio di favori tra gli addetti ai lavori.
Tra questi ultimi si potrebbe collocare Woody Allen che, nella sua recente autobiografia A proposito di niente uscita il 23 marzo 2020, racconta il motivo per cui non ha ritirato i quattro Oscar fra cui quello per il “miglior film”, vinti da Annie Hall (Io e Annie) nel 1978.
«Il film ricevette varie nominations agli Oscar», scrive Allen. «La sera della premiazione suonavo a New York… usai il concerto come scusa, ma non ci sarei andato neanche se fossi stato libero.
Non mi piace che si diano premi in campo artistico. Film, libri e così via non vengono creati per fare a gara gli uni con gli altri, nascono per soddisfare un impulso creativo e, si spera, per intrattenere. Non sono interessato a sentirmi dire da qualcuno quale sia il miglior film, libro o musicista dell’anno».
Modestia, eccentricità o snobismo?
Ritengo che nessuno degli scrittori o poeti che oggi partecipano ai concorsi letterari, siano essi premi importanti come lo Strega, Campiello, Pulitzer o meno famosi come quelli gestiti da sconosciute Associazioni, oserebbe privarsi della gioia di ricevere un riconoscimento. La vanità è propria dell’uomo, dell’ego. La vanità inoltre è chiassosa, appariscente ed esplode sempre prima o poi perché si nutre dell’applauso degli altri.
Non sembra vanitoso in tal senso Woody Allen che, pur avendo vinto tre Oscar e ricevuto 23 nominations, si è sempre rifiutato di partecipare alla cerimonia di premiazione.
I libri, in realtà, non sono cavalli da corsa, non vanno allenati e frustati nella speranza che si piazzino. Dovrebbero essere, come tutte le opere d’arte, generose condivisioni di un pensiero, di un piacere, di un dolore comune. Si dovrebbe lasciare che i libri vivessero in totale autonomia. Lasciare che si aggirino senza onorificenze per il piccolo mondo dei lettori, sperando che tocchino l’anima di qualche non lettore, che lo conquistino alla gioia di leggere.
Scrivere un romanzo, un testo poetico che parla al cuore, o realizzare un’opera cinematografica di alto livello, dovrebbe essere un premio in sé.
Il carrierismo, il superare gli altri per meriti e pregi, l’ambizione è stata sempre una malattia dello spirito che colpisce tutti, colti e ignoranti, ed ha alla base orgoglio e vanità opportunamente miscelati.
Giuseppina Rando