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Gianfranco Cercone. “Honey boy” di Alma Ha’rel
12 Giugno 2020
 

Un racconto che riguarda direttamente se stessi, e in particolare la propria infanzia, è certo un modo per comprendersi, forse per distribuire tra sé e gli altri le ragioni e i torti in merito a vecchi conflitti; magari per non essere schiacciati dal peso del torto, e cioè del senso di colpa.

È proprio forse un intento di autoanalisi e una ricerca di quella liberazione interiore che proviene dalla conoscenza approfondita dei fatti del passato, che hanno indotto un popolare attore americano, Shia LaBeouf – noto al grande pubblico soprattutto per la saga Transformers – a scrivere la sceneggiatura di un film sulla propria infanzia, e in particolare sul rapporto con suo padre.

Il film si intitola Honey boy, lo ha diretto la regista Alma Ha’rel, ed è interpretato dallo stesso Shia LaBeouf nel ruolo di suo padre. È stato presentato al “Sundance Film Festival” e alla “Festa del Cinema” di Roma. Sarebbe dovuto uscire nei cinema italiani a marzo. L’emergenza sanitaria ne ha impedito la programmazione, ma da qualche giorno si può vedere su alcune piattaforme digitali e in particolare su CHILI tv.

Il padre in questione è un uomo a dir poco problematico. È affetto da alcoolismo, è incline a reati sessuali (è stato anche in prigione), è disoccupato e separato da sua moglie. Suo figlio, fin da bambino, ha avuto successo come attore di serie televisive. Dovrebbe dovunque costituire per il padre un motivo di orgoglio, un riscatto ai propri fallimenti.

In parte, in effetti, è proprio così. Allo stesso tempo, però, egli si è umiliato dal confronto con il figlio, il cui lavoro costituisce ormai la sua sola fonte di sostentamento. E mentre si prodiga ad accompagnarlo negli studi cinematografici, ad allenarlo alla recitazione, lo tormenta, si direbbe vendicativamente, con il proprio perfezionismo, gli rovina in ogni modo la soddisfazione per i suoi successi, inventa mille pretesti per umiliarlo. Se però il figlio mostra di preferire alla sua compagnia quella dell’attuale convivente di sua madre, ecco che il padre si ingelosisce, e la gelosia lo rende aggressivo, a volte violento.

D’altra parte il figlio è affezionato al padre, avrebbe evidentemente un disperato bisogno del suo amore, vederlo sempre così tormentato lo getta nell'angoscia, perché, assecondando i suoi rimproveri, si ritiene lui stesso una ragione della sua perenne scontentezza.

Però, a sentirsi così maltrattato, è indotto a vendicarsi, a umiliare il padre a sua volta: una rivalsa che il padre gli rinfaccia come una colpa, e per cui lo punisce.

Come si vede, è un rapporto che racchiude una specie di labirinto psicologico, un circolo vizioso di reazioni e controreazioni, nel quale, si intuisce, la coscienza, ancora non del tutto consolidata, di un bambino, non può che smarrirsi, perdere la cognizione della ragione e del torto.

Un secondo momento del racconto, che, per tutta la durata del film, è intersecato al primo, mostra il figlio, ora adulto, e attore affermato, divenuto anche lui alcoolizzato, che finisce in un centro per la disintossicazione, dove si sottopone a una psicoterapia.

Va detto che se nel momento che riguarda l’infanzia, il racconto è analitico, questo secondo momento, invece, specie per quanto riguarda la figura del protagonista, è più generico, e non costituisce che una cornice del racconto di infanzia, il vero cuore del film.

In particolare la figura del bambino – interpretata molto bene da Noah Jupe – soldato di una battaglia evidentemente sproporzionata alle sue forze, oltre a darci sempre un senso di verità, impressiona e può sconvolgere perché, immedesimandosi in lui, risulta penosa, quasi insopportabile, la violenza, soprattutto psicologica, a cui egli è costantemente sottoposto.

Interessante.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 30 maggio 2020
»»
QUI la scheda audio
)


 
 
 
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