L’amore. Uno dei pochi fenomeni non spiegabili scientificamente.1
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Invece di Venezia optammo per Como. Il viaggio fu rapido, il treno era la mia culla. Scesi in stazione e vidi Albert in piedi, ritto sull’attenti, ad aspettarmi. Per il resto del mondo era il 5 maggio 1901, per noi era il paradiso. Come ci capitava ogni volta che rubavamo del tempo agli impegni più importanti per stare vicini e riunirci in un unico sogno.
Scesi dal vagone all’arrivo nella cittadina lacustre e Albert mi abbracciò con molto calore e con il cuore che batteva forte, lo sentivo. Si fece carico dei miei bagagli, mi precedette e io lo seguii. Aveva preparato una cartina con le tappe della giornata, ed era importante rispettarle. Facile.
Per prima cosa andammo a visitare la cattedrale gotica, era di una bellezza infinita. Facemmo il giro di tutti i saloni, mano nella mano, e io rimasi incantata da tanto splendore. La Madonna con bambino sembrava viva. Poi andammo per le strade della città vecchia, protetta da una cinta di mura.
Dopo il giro nella città prendemmo un battello bianco che costeggiava le sponde del lago e collegava alcuni paesi.
«Mia dolce streghetta, ho un sacco di cose da mostrarti» mi disse, in preda all’entusiasmo più folle.
Mi guidò per le stradine come un saggio condottiero. I ciottoli mi facevano inciampare e lui mi teneva saldamente il braccio nei momenti di difficoltà maggiore. Altrimenti era sempre davanti a me, gesticolava, indicava, mostrava, era il mio personalissimo cicerone. Ci fermammo in un bar, dove secondo lui veniva servito il miglior caffè del lago di Como, e ce lo gustammo guardandoci negli occhi e perdendoci in quel sapore che in effetti era veramente squisito e nuovo. Calcolammo il numero di caffè che quel posto poteva servire al giorno, e poi in un mese, e in un anno, e facemmo la media dei caffè prodotti in un secolo da quel posto che decidemmo essere gestito da autentici benefattori dell’umanità, per quanto era buono. (…)
Uscimmo dal bar e andammo in giro per la città, a zonzo, senza meta. Parlavamo di elettroni, atomi, materia, cosmo, universo. All’ora di pranzo prendemmo il traghetto per Colico, e dopo un’ora e mezza scendemmo per un giro a Cadenabbia. Proseguimmo ben oltre il paese, arrivando fino a Villa Carlotta, a Tremezzo. In questa trovammo il nostro rifugio, in uno spazio che conteneva una scultura erotica di Antonio Canova, intitolata Amore e Psiche, e cinquecento varietà di piante. Il giardino che avevamo davanti era magnifico. C’era un enorme cartello che vietava di cogliere anche un solo fiore. Non mi sembrò giusto, ma rispettai la regola. E forse proprio quella me lo fece sembrare ancora più bello. Colico era la nostra meta successiva, riprendemmo il traghetto e dopo un’altra ora abbondante arrivammo all’estremità settentrionale del lago. Passeggiammo per le strade del paese con una grazia che sembrava una danza. Mi dimenticai del mio difetto nel camminare, anzi quel giorno forse era sparito. Mangiammo un pane buonissimo, ricolmo di verdure, e poi decidemmo di prendere il treno per Chiavenna e trovare una locanda per dormire.
Durante il viaggio in treno restammo abbracciati, tra effusioni e baci il tempo volò. E una volta scesi ci infilammo nella prima locanda che trovammo fuori dalla stazione. La custode ci aveva dato una stanza piccola ma molto calda, con letto così grande che da solo occupava quasi tutto lo spazio. Era quello che desideravamo di più di al mondo. Albert posò a terra i miei bagagli e mi si avventò addosso. Non riuscivo a respirare il quel diluvio di baci, era felice, lo sentivo, eravamo felici. Passammo la notte a fare l’amore, dormimmo pochissimo. Eravamo euforici all’idea di trovarci in Italia insieme e progettavamo un futuro anche in quella città. Se avessi messo su un grafico tutte le città in cui Albert mi aveva detto che voleva vivere con me, avrei riprodotto l’intero globo terrestre.
Scendemmo a far colazione nella sala da pranzo dell’hotel e Albert mangiò qualsiasi cosa si trovasse davanti. Fette biscottate, pane, tanto pane, pane con burro, pane e formaggio, schiacciata di noci, pane con schiacciata di noci, pane con mele, pane con pane. Bevemmo un altro caffè e tornammo in camera. Facemmo ancora l’amore e poi decidemmo che era arrivato il momento di saldare il conto e andare via.
Chiavenna era una ridente cittadina situata in una valle delle Alpi, sulla via d’accesso a due passi: lo Spluga, che la collegava con la valle del Reno, e il Maloggia, oltre il quale si stendevano le magnifiche Alpi Retiche e la valle dell’Engadina, dove si trovava Saint Moritz. Albert mi parlò di questa Saint Moritz come della più bella città innevata del mondo. Nella sua personalissima classifica delle città innevate.
Girammo per le strade di Chiavenna, visitammo una chiesa e ci fermammo a parlare con un gruppo di signori che giocavano a carte su un tavolino all’aperto: sedie pieghevoli e una caraffa di vino risso sopra una tovaglia a quadretti bianchi e rossi. Uno di loro, un certo Mauro, voleva insegnarci l’italiano. Albert conosceva già qualche parola, però fingemmo di non saperlo, perché la loro parlata era così melodica che ci piaceva ascoltarli. Continuammo nel nostro giro e ci imbattemmo in due ragazzi che prendevano a calci un pallone nel cortile aperto di una villa. Albert, preso dall’euforia del momento, si mise a dare qualche calcio con loro ma si slogò una caviglia e se ne tornò da me mogio mogio.
Albert era deciso a spingersi più a nord, verso la valle di San Giacomo. Voleva superare il passo dello Spluga, a 2115 metri di altezza, e scendere nella valle di Hinterrhein. Perfino in quella tarda primavera i passi montani erano ancora carichi di neve. Il mattino dopo, Albert e io noleggiammo una slitta a cavallo e facemmo un’escursione molto romantica allo Spluga. Sotto una morbida pelliccia stavamo al caldo, nella slitta che parlava d’amore. Eravamo due innamorati, nient’altro. Solo questo si poteva dire di noi. Ce ne stavano accucciati lì sotto, facendo spuntare solo gli occhi per ammirare il paesaggio, e non ci parlavamo neanche, per il freddo. Avevamo entrambi le orecchie gelate. Il conducente montava a cassetta sulla parte posteriore della slitta e parlava in italiano senza mai fermarsi, facendo dei discorsi che capiva solo lui. Noi non capivamo una parola, però ogni tanto dicevamo in coro ‘sì sì’, per dargli soddisfazione. Sembrava un gondoliere veneziano, così mi disse Albert, anche se io non ne avevo mai visto uno. Era un tipo simpatico, soprattutto perché si rivolgeva a me chiamandomi ‘signora’. E io non riusciva a immaginare niente di più romantico. A un certo punto, il conducente si fermò di colpo e decise che era arrivato il momento di una spiegazione più approfondita sui luoghi che stavamo visitando. Scendemmo anche noi e ci mettemmo davanti a lui. Albert faceva da traduttore. E quando non capiva, faceva finta di aver capito e traduceva come gli pareva.
La strada per lo Spluga era stata costruita dai Romani, e una parte di essa sembrava non essere stata trasformata granché, da allora. Fuori Chiavenna, cominciava bruscamente a inerpicarsi nella valle in stretti terrazzamenti sinuosi, che sporgevano dal ripido fianco della collina. La prima scoraggiante serie di tornanti finiva alla San Giacomo Filippo, una missione del XVI secolo il cui piccolo cimitero sovrasta una superba vista dalla vallata a sud.
Dopo quella lunga spiegazione, il nostro gondoliere, ormai Albert lo chiamava così, ci portò in una locanda e ci prenotò una stanza. Non ci mettemmo molto a prendere sonno quella sera, e la mattina dopo eravamo di nuovo Doxerl e Johannzel2 alla scoperta di nuovi mondi.
Uscimmo e trovammo una bella sorpresa: nevicava. La neve veniva giù a batuffoli grandi e soffici, e questo ci mise addosso molta allegria. Prendemmo un’altra slitta e facemmo un nuovo percorso. La strada si snodava sinuosa a quote sempre più alte rasentando su un lato un alto strapiombo, e sprofondando sull’altro versante in lunghe e strette caverne rocciose. Il paradiso che mi circondava era inebriante, era completamente bianco, a tratti i ricordava la bianca Heidelberg. Ora percorrevamo lunghe gallerie, ora una strada a cielo aperto, dove non c’era altro che neve e ancora neve a perdita d’occhio. Quella fredda infinità bianca mi dava i brividi e tenevo Albert saldamente stretto fra le braccia, sotto i mantelli e gli scialli da cui eravamo coperti. A tratti la neve era molto profonda, mentre salivamo verso un mondo di roccia, tra vento e ghiaccio. Sul ciglio del passo dello Spluga, che faceva da confine tra Italia e Svizzera, alcune piccole case di pietra contraddistinguevano le località di Stuetta e Montespluga. Scendemmo in cima al passo e traversammo la frontiera, incamminandoci a piedi. Molto sotto di noi si vedeva chiaramente il nastro del Reno che serpeggiava oltre il villaggio di Spluga, attraverso erte colline fino alla stretta gola della via Mala. Ridevamo, ridevamo continuamente. Sembravamo ubriachi. Malgrado il brutto tempo. Quando sentivamo freddo ci stringevamo uno all’altro e tutto passava. Scendemmo giù per la discesa, fra la neve alta. Di tanto in tanto ci fermavamo a far rotolare palle di neve lungo il pendio, immaginando i sottili rivoletti scendere a cascata in roboanti valanghe che si abbattevano sugli abitanti insonnoliti.
Con quel freddo non parlavamo quasi. Stavamo sempre zitti. Forse quei giorni sono stati gli unici della nostra vita in cui la fisica ha lasciato il posto solo a noi due. Ma era colpa del freddo, di certo Albert non aveva smesso di volermi parlare di fisica.
Dopo una notte a Splügen, seguimmo il corso del Reno attraverso la via Mala, a nordest. Dopo una serie di tortuose forre, sempre più profonde, il fiume ci condusse alla vecchia città di Coira, nel cuore del cantone dei Grigioni. Quel nostro abbandono alla neve, alla nebbia, al vento, al sole, alle colline, al torrente stava per concludersi.
1 Cfr. Einstein e io, 2018, romanzo di Gabriella Greison sulla vita di Albert Einstein e Mileva Marić, Salani Editore. Gabriella Greison è fisica, scrittrice e giornalista professionista.
2 Einstein cominciò a chiamare Mileva, Doxerl (bambolina), lei lo chiamava Johannzel (Giovannino).
(Lettura proposta da Luciano Angelini, il brano è tratto dal libro Einstein e io, pagg. 130-134: un tuffo nella ridente cittadina di Chiavenna e dintorni d’inizio ‘900)