A volte il titolo di un film è così appropriato, e così suggestivo, che non soltanto condiziona la nostra visione del film, ma ci aiuta a entrare nel suo cuore emotivo.
Mi sembra il caso di Favolacce, il titolo del secondo lungometraggio scritto e diretto dai fratelli D’Innocenzo; che ha vinto l’Orso d'Argento per la migliore sceneggiatura all’ultimo festival di Berlino; e che è uscito in questi giorni su varie piattaforme digitali come Rakuten Tv, Chili, Timvision, e altre ancora.
Non c’è favola, si sa, in cui non sia presente, concretizzato in qualche elemento, il Male. Ma il Male come visto dai presumibili lettori di quelle storie, i bambini; dunque non indagato nelle sue possibili ragioni psicologiche e sociali; fonte di spavento, di stupore, di fascino, ma anche favolosamente, appunto, indeterminato.
Ma la notevole idea alla base del film dei D’Innocenzo, è trapiantare tale percezione infantile del Male, dal mondo delle favole – e dunque dal mondo degli orchi, delle streghe, delle case incantate – al mondo reale; giustificata dal fatto che lo sguardo dei bambini è capace di mitizzare quei fenomeni della vita quotidiana che, a uno sguardo adulto, appaiono risaputi, magari tristemente risaputi, comunque facili da catalogare.
Il racconto si svolge nel piccolo mondo – che vale qui come un microcosmo – di un quartiere periferico di Roma, tra le cui villette a schiera, allignano i mali ricorrenti nella realtà contemporanea: la disoccupazione, la povertà, l’invidia sociale, la frustrazione, il maschilismo, la volgarità della pornografia, il disprezzo per gli altri, la disperazione, il cinismo, e così via.
Ma questa variegata negatività, così diffusa e predominante che nessuna forza positiva sembra capace di vincere, agli occhi del bambini che abitano quel quartiere, forma l’impressione di un mondo tutto malato, infetto, da cui ci si può forse salvare soltanto distruggendolo, o distruggendo se stessi.
Favolacce comprende varie storie, intrecciate fra loro, delle famiglie del quartiere. Ma coerentemente con il punto di vista adottato dagli autori – quello dei bambini, appunto – più intuitivo che logico, che subisce il fascino delle persone e dei fatti che avvengono, piuttosto che razionalizzarli, nel film contano più i frammenti visivi che il racconto di quelle storie, che sarà lo spettatore a dover ricostruire. E insomma il senso del film è affidato a dettagli: come la piega amara di un sorriso, lo scatto della pupilla in un occhio selvaggiamente sgranato; un viso indurito, reso come meccanico, dall’indifferenza.
Se l’umanità degli adulti appare tutta variamente mostruosa, i bambini, più sensibili, ancora capaci di una certa grazia, non risultano tuttavia puri, portatori di innocenza, perché il veleno mortale del mondo esterno si è infiltrato anche in loro, inquinando così alle radici la fonte di rinnovamento della società.
Favolacce è insomma un film apocalittico, ma senza scene spettacolarmente catastrofiche, o superficialmente raccapriccianti, ma con uno stile originale, allusivo e suggestivo.
Si avvale di ottimi attori, come ad esempio Elio Germano, Lino Musella, Ileana D’Ambra, incaricati di dare corpo più a presenze che a personaggi tradizionali.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 16 maggio 2020
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