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Roberto Dell’Ava. I 75 anni di Keith Jarrett
08 Maggio 2020
 

Capriccioso, irascibile, insopportabile, ma appena mette le mani sulla tastiera ecco che la magia si sprigiona. Una carriera lunga, forse oggi minata da problemi alle mani (che speriamo siano risolvibili), costellata da una lunghissima discografia, forse eccessiva considerando la ripetitività delle due formule esclusive ormai da quasi quarant'anni: piano solo e Standard Trio. Volendo fare l’avvocato del diavolo alcuni album, sopratutto nel penultimo periodo, sembrano un po’ di routine, ma, una routine di gran classe senza mai cadute di gusto. La qualità è sempre garantita, certo la freschezza e la novità non abitano più da quelle parti, ma la classe e il tocco sono rimasti immutati.

Jarrett possiede l'abilità di far “cantare” il pianoforte, al punto che quando lo suona lo strumento acquisisce caratteristiche innografiche quasi sacre. Il primo ad introdurre elementi di questo tipo nel Jazz è stato Coltrane ma Jarrett non ha rivali nel coltivare e trasporre questa dimensione in campo metafisico; il segreto non sono le melodie e le armonie che suona, bensì come le suona. Questa spiritualità si lega al fatto che dai tempi di Bill Evans non era apparso sulla scena nessun pianista dotato di un tocco così differenziato, capace di “dare vita” alle note, spaziando – come dice il critico Peter Rudi – l’intera gamma, “dagli arpeggi che aleggiano appena udibili sopra il silenzio, a brucianti e chiassose linee di fandango eseguite con un'espressività da spezzare le dita”. Questo fa sembrare i seguaci di Jarrett – come George Winston e Liz Story – noiosi e banali, perché lo imitano solo in superficie senza avvicinarsi alla qualità, che ha a che fare con il “tocco”. (Da Il Libro del Jazz di Joachim-Ernst Berendt)

Jarrett ha riconosciuto che il pubblico, e persino alcuni suoi colleghi musicisti, a volte hanno pensato che le sue radici etniche fossero afroamericane, a causa del suo aspetto e della sua capigliatura giovanile. Spesso racconta un aneddoto di quando Ornette Coleman gli si avvicinò nel backstage e gli disse qualcosa del tipo: “Amico, devi essere nero. Devi solo essere nero”, a cui Jarrett rispose: “Lo so. Lo so. Ci sto lavorando”.

Famoso per quel canticchiare sgraziato sulle parti suonate e, sopratutto, per le sue interruzioni durante i concerti di piano solo se qualcuno tra il pubblico osava tossire o, peggio ancora, fotografare con il flash. Situazioni che ho vissuto di persona, ma che alla fine hanno contribuito alla costruzione del personaggio e a quell'alone da divo che ben pochi jazzisti hanno mai conseguito. Naturalmente, come ogni celebrità che si rispetti, le sue fissazioni sono diventate anche oggetto di ironia.

Oggi è il compleanno di Keith Jarrett, ma è lui a portare un regalo.

Per essere più precisi, ECM Records ha pubblicato una nuova traccia del celebre pianista: una versione delicata di “Answer Me, My Love”, registrato alla Béla Bartók National Concert Hall di Budapest, in Ungheria, il 3 luglio 2016. È il primo assaggio di un album programmato per l’uscita in autunno.

I fan stagionati di Jarrett lo riconosceranno come un classico bis solo, dolcemente radioso ed emozionante. In effetti, la canzone – uno standard originariamente intitolato “Mütterlein”, famoso con i testi in inglese di Nat King Cole – è stato un punto fermo del suo repertorio negli ultimi dieci anni circa.

 

Roberto Dell’Ava

 

 



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