Otto settimane di “reclusione”, sia pure in un comodo appartamento, sono bastate a farmi capire quant’è importante il dono della libertà. E a farmi immaginare quanto può essere immenso il dolore che prova chi recluso lo è veramente, nella cella di un carcere. E magari lo è per mesi, per anni, per una vita. Non voglio più negarmi di provare compassione per loro, detenuti e detenute, anche verso chi ha commesso crimini orrendi. “È un assassino”. Ma, prima di tutto, è un uomo. “Ha commesso un delitto, deve scontare la sua colpa”. Ma si giudica il comportamento, non la persona. La persona, attraverso la privazione della libertà, deve prendere coscienza di quanto fosse sbagliato il suo comportamento, di quali conseguenze, anche tragiche, abbia causato; deve capire che, una volta scontata la pena, dovrà vivere nell’umana solidarietà, non più nell’altrui disprezzo.
Io che sto fuori dal carcere, che sono libero di fare le mie scelte, voglio fare le scelte giuste, non voglio essere di cattivo esempio. Non mi sta bene la vendetta. Guardando innanzitutto me stesso, guardando la realtà del vivere, capisco che un animo cattivo non lo è mai unicamente per propria scelta, solo per propria responsabilità. Capisco che ognuno porta in sé una bellezza, sia interiore sia esteriore, che non va ignorata o sminuita, ma aiutata ad emergere.
Michele Tarabini