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Sergio Caivano. La fuga interrotta di Mussolini verso la Spagna
06 Maggio 2020
 

Il 23 aprile 1945 Miriam Petacci, sorella di Claretta, assieme al suo compagno Leon Degrelle, capo dei fascisti belgi, dalla Malpensa parte per la Spagna di Francisco Franco con carte credenziali per le autorità spagnole firmate da Mussolini. Il 25 aprile lo stesso Mussolini invia Marcello Petacci perché chieda al console spagnolo di Milano Don Fernando Canthal se è disposto ad eseguire una importante missione per conto di Mussolini. La missione consiste nella consegna di una sua lettera all’ambasciatore inglese Norton a Berna. Ce lo racconta Alessandro Zanella col suo libro: L’ora di Dongo. Il console accetta e si reca in Prefettura e riceve una lettera di Mussolini per l’ambasciatore inglese Norton che si trova a Berna. «In quella lettera», scrive Zanella, «il capo del fascismo offre agli inglesi la resa della RSI e chiede che il fascismo non sia completamente distrutto per fare da argine, in futuro, al bolscevismo. Canthal parte subito per la Svizzera. Quando rientra, è ormai troppo tardi».

Quel giorno, quando già si sentono gli spari in città, Mussolini mente due volte: una prima volta al cardinale Schuster, ed una seconda ai pochi fascisti che lo seguono, allorché afferma di essere diretto verso il famoso r.a.r. (ridotto alpino repubblicano) in Valtellina. Ma prende la strada per Como, di cui nessuno fino allora ha parlato. La via diretta per raggiungere la Valtellina è Lecco, non Como. Del resto, prima il federale di Sondrio Rino Parenti e poi il generale Onorio Onori, comandante delle truppe fasciste valtellinesi, lo avevano informato dell’impossibilità di organizzare una qualsiasi difesa nelle valli, già sottoposte a duri scontri coi partigiani. È pressoché certo che, a questo punto, Mussolini pensi ad un espatrio clandestino, appurato che il confine elvetico gli è ormai precluso, come gli ha comunicato il cardinale Schuster. Vuole, deve raggiungere la Svizzera. In una banca elvetica gli è stata accreditata una somma enorme, 109 milioni di lire ricavate dalla vendita del Popolo d’Italia con annesso il palazzo e la tipografia all’industriale Cella. Somma che gli tornerà utile in seguito. Per questo, da Como s’avvia verso Menaggio e poi, di nascosto, con Claretta Petacci e Paolo Porta, verso Grandola, a due passi dal confine. Purtroppo per lui, viene raggiunto dall’immancabile scorta tedesca e dagli altri fascisti rimasti.

Il generale Graziani approfitta del clima di grande confusione per allontanarsi e consegnarsi al capitano americano Daddario che lo porta a Milano e lo rinchiude a S. Vittore. Processato e condannato a 30 anni, sconterà solo pochi mesi perché, nel frattempo, è stata approvata l’amnistia voluta da Togliatti ed interpretata, da una magistratura cresciuta all’ombra del fascismo, con eccessiva generosità. Anche i ministri Buffarini Guidi e Tarchi si staccano dal gruppo e cercano una via di fuga in Svizzera, ma vengono riconosciuti dai partigiani a Porlezza ed arrestati. Saranno processati a luglio e condannati rispettivamente a morte e a 30 anni. Buffarini Guidi sarà giustiziato. Tarchi, assai più fortunato, sconterà pochi mesi di carcere e poi verrà rilasciato, sempre per effetto della sopraggiunta amnistia. La colonna fascista, assieme a quella tedesca sopraggiunta, finisce in bocca ai partigiani tra Musso e Dongo. Qui Marcello Petacci si spaccia per console spagnolo diretto in Svizzera per incontrare Norton, ad ulteriore conferma della soluzione franchista, ma non viene creduto da Urbano Lazzaro “Bill” nonostante l’esibizione di documenti. Il resto è noto a tutti.

Poco noto è invece il fatto che, il 30 aprile ’45, il Prof. Luigi Cova viene incaricato di eseguire l’autopsia sul corpo di Mussolini. Viene aiutato dal Prof. Caio Mario Cattabeni. È proprio il Prof. Cova che, nella tasca dei pantaloni dell’ex duce rinviene una busta gialla con un foglio in carta intestata dal consolato spagnolo di Milano, rilasciata ai coniugi Isabella y Alonso, di nazionalità spagnola, che chiedono il rientro in Patria. Sotto i falsi nomi si celano quelli di Mussolini e della Petacci i cui nomi appaiono scritti a lapis in alto e che avrebbero dovuto essere trascritti in inchiostro rosso al posto giusto e al momento giusto. È quanto scrive Wladimiro Settimelli su Patria indipendente del 26 settembre 2010. Che approfondisce la questione e chiede al Prof. Cova la conferma della storia del documento ritrovato nei pantaloni di Mussolini poi prelevati, nel caos di quei giorni, da un sedicente comandante partigiano. Il Prof. Cova conferma ed aggiunge: «Insomma è chiaro che Mussolini e la Petacci stavano scappando verso la Spagna e non verso la Svizzera».

 

Sergio Caivano


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