Ancora un titolo dirompente lanciato come un sasso, o come un guanto di sfida, da raccogliere o schivare. Sbattere contro le stelle, una raccolta di scritti pubblicati su una rivista mensile a carattere religioso e stampata con Edizioni Sant’Antonio, è la nuova uscita con cui Antonio Bennato ancora una volta provoca scompiglio, e non solo nei suoi lettori, altalenando tra inferi e sfere celesti. Baciato dall’estro di una scrittura eletta e rocambolesca, tanto autentica quanto ricercata, alternativamente esaltato o castigato dal riscontro esterno, Bennato va per la sua strada con una umiltà che sconcerta, se raffrontata al suo stile narrativo ardimentoso e rivoluzionario ‒ che nel tempo e nei sovvertimenti dell’animo tende a mitigarsi senza peraltro perdere di mordente e fascinazione ‒ e una dignità che più emerge nelle burrasche del vivere, con rovesci e disavventure che lo portano a sperimentare condizioni di estrema precarietà, propria e altrui, tra cui quelle di ambulanti ai semafori, che Bennato convertirà in un romanzo / denuncia crudo e appassionato.
Sbattere contro la scrittore Bennato, un lupo nella pelle dell’agnello o anche viceversa, è toccare con mano le spine e il velluto di una vicenda umana e spirituale che tutti in fondo ci riguarda.
Antonio Bennato (foto), classe 1947, salernitano di origine e residente a Velletri (Roma), autore di dibattute e apprezzate pubblicazioni, sia in prosa sia in poesia, così si presta a raccontarsi in un incontro cui gentilmente ha aderito e che qui riportiamo:
– Antonio Bennato, poeta e scrittore. Quando ha preso atto della sua innata propensione per la parola scritta? Ricorda qualche particolare circostanza?
Ricordo che in quarta elementare un mio temino venne pubblicato sul giornale della scuola. Mio padre dovette comprare un tavolino per non vedermi scrivere sulle sedie. Volevo semplicemente scrivere perché mi piaceva. Forse ho realizzato di poterlo fare sul serio quando cominciai a mandare le mie poesie a Premi Letterari, nel 1969. E le poesie, oltre a raccogliere meriti e segnalazioni, erano inserite in riviste e antologie. Il Premio che ricordo con piacere è quello a cui partecipai nella sezione Giovani Poeti con Il pozzo di Sichar e risultai tra gli otto finalisti, Premio Bergamo 1971. Sicuramente lo realizzai con più forza quando il primo romanzo I Santi li ho tirati giù dal cielo risultò finalista al Premio Rapallo-prove 1974, tra i migliori premi letterari per inediti, in seguito pubblicato con Mondadori Editore.
– Quanto e come incide la sua formazione di novizio nel suo rapporto con il divino? E sulla sua scrittura, in particolare sul suo ultimo libro Sbattere contro le stelle?
Gli anni di formazione nell’istituto religioso hanno inciso molto molto poco. E dico anche questo: ho vissuto dieci anni nell’ordine religioso. Durante il Noviziato ho studiato le regole dell’Ordine e ho fatto man bassa in biblioteca, libri d’ascetica, mistica, vite di Santi. Ma l’ultima mia opera, la novità, come si suol dire, non è nata affatto dalla mia prima educazione. Il rapporto col divino, da fanciullesco, sentimentale, banale, è passato a rapporto adulto quando mi è sembrato di morire per il dolore di vedere ucciso il sogno raggiunto – pubblicare infatti con Mondadori mi aveva fatto credere di essere finalmente Scrittore, con la esse tre volte grande. Sennonché, con l’idea che il colpevole fosse Dio, e vedendo pure che non si alzava più una lira al semaforo, andai in biblioteca nazionale a cercare risposte vere su questo Dio che mi faceva morire. Dall’altra parte, indagai e capii da alcuni fatti e alcune parole riferitemi che il mio sogno era stato ucciso da chi aveva il potere di uccidere quel sogno. Intanto, in biblioteca, attraverso opere di spiritualità, opere come quelle di Péguy, Claudel, Bernanos, Daniel Rops, Maritain, Merton, ma soprattutto i molti commenti sulla Sacra Scrittura, incontrai il vero Dio che parla al cuore. Era tanta la comprensione delle cose che lì stesso scrissi un racconto saggio: Il respiro del lago.
– Il suo nuovo libro con edizioni Sant’Antonio nei classici di teologia cristiana, che cosa propone al lettore sia credente che laico? La sua è una riconversione o una evoluzione del suo pensiero religioso?
Uno scrittore è sempre uno scrittore sfortunato. Si vorrebbe cambiare il mondo. Ma io non ho nulla da proporre se non lacrime che però hanno ricevuto molte consolazioni. Sbattere contro le stelle è un libro che ha perfezionato il mio sbattere contro le stelle dell’Antico e Nuovo Testamento, che sono cioè i Patriarchi, Profeti, Re, Ester, e la Madre del Verbo. Sbatterci è stata una riconversione.
– Nostalgia di quel ‘Fuoco Divorante’ acceso in lei in età giovanile?
Nostalgia, sì, nostalgia di Dio. A diciannove anni, chiamato da tutti ‘traditore’ e ‘foglia secca’ ma colmo della mia libertà, m’allontanai, presi un’altra strada, con paura per il futuro, ma la presi. Adesso, ancora colmo di libertà, ritornavo al ‘Fuoco Divorante’, ma non agli anni del seminario.
– Uno scatto di ribellione al “già tutto stabilito” che l’aveva portato a spiccare i santi dal cielo?
Fu ribellione che durò a lungo. Era questione di una visione nitida e sincera di vita che non vedevo più intorno a me. Oggi nei seminari è diverso: ci sono vocazioni adulte. Una volta si entrava da bambini. Ricordo che, per una bellissima combinazione, accaduta mentre vendevo libri ad un importante Festival dell’Unità a Roma, I Santi… giunse nelle mani di Giuliano Manacorda, docente, storico e critico della letteratura italiana. Lui ebbe davvero la forza di leggere, e mi scrisse. Dovrei ancora conservare da qualche parte la sua lettera. Mi apprezzò molto, però pose anche questa domanda: “Ma quale editore avrebbe l’animo di pubblicare un libro di così violento anticlericalismo?”
– Quindi aveva del tutto respinto, e alquanto furiosamente, il suo primo fervore religioso…
Avevo detto basta a Dio e alla chiesa. Però, alla domanda di Manacorda risposi introducendo nel libro la figura di Giovanni Santaniello che diventerà poi Don Giovanni. Lo feci per contrastare quella violenza. Pubblicato poi da Mondadori nel 1988 il libro ricevette un successo inaspettato e grande. Poi, senza alcuna spiegazione, io posso solo immaginarla, la ‘carriera’ mi fu stroncata.
– Come e perché e da parte di chi, secondo lei, tale stroncatura del suo libro di successo?
Immagino, e lo immagino ancora oggi, di non essere un tipo televisivo. Di fronte a una telecamera, o a un semplice registratore, non sono più me stesso. Parliamoci chiaro: gli editori preferiscono private storie familiari che non hanno alcun valore linguistico se non quello della comunicazione gergale, con la quale poi gli autori sanno presentarsi in televisione. Mi vidi buttato in televisione, davanti alle telecamere, ma io ero timidissimo. Tutto questo ha suscitato in me un profondo disgusto al punto che passando davanti alle librerie voltavo la faccia dall’altra parte, con odio, direi.
– Ma non rinunciò al suo impegno di scrittore. Quando riprese a pubblicare?
Nel 2008 pubblicai La Capitana e nel 2009 Quo vadìsse, Pulecenè, raccolta di raccolte di poesie. Con Guida Editori, Napoli. Giusto vent’anni dopo I Santi… Le poesie, rivedute e corrette, col titolo Un cesto di poesie sono oggi pubblicate su ilmiolibro.it
– Un lungo intervallo prima di ridarsi anima e corpo alla scrittura. Senza mai gettare la spugna…
Vent’anni di silenzio, ma non di resa totale. Tant’è vero che, facendo un trasloco da Ariccia a Velletri nel 1998, mi capitò tra le mani Voglio ancora sperare e Libertà e speranza che erano le primissime stesure de Il respiro del lago; scovai anche questo, lo rilessi e nacque l’idea di Un pugno di more.
– Una nuova perentoria chiamata da Lassù? Un pugno di more, una storia complessa, surreale e mistica ma anche schiettamente umana, resa in stile epistolare con un linguaggio meditato e vibrante che sembra chiudere un cerchio e voltare pagina: vuole dirci com’è andata?
È stato il libro più difficile da scrivere, per struttura e linguaggio; difficilissimo se penso alla mia riservatezza, perché in fondo parlavo molto di me. Il linguaggio doveva essere diverso dagli altri libri, molto diverso dallo ‘scapestrato’ linguaggio de La lupa e il furore. Nei due anni circa in cui mi chiusi nella biblioteca nazionale applicai alla mia vita le storie della Bibbia. Conobbi molte risposte ai miei dubbi, si fece una luce nella mia vita, e potei scrivere il capitolo Il respiro del lago, una metafora che divenne roccia per il Naufrago.
– Come arrivò a collaborare con il mensile Ecclesia in cammino? e al suo approdo alle Edizioni Sant’Antonio poi?
Volevo sapere se per caso avessi scritto qualche eresia in Un pugno di more, e chiesi aiuto a don Angelo mons. Mancini. Ancora non sapevo che fosse direttore di Ecclesia. Lui consegnò il manoscritto ad un professore della Pontificia Università, teologo e scrittore, don Antonio Galati. Temevo che questi mi dicesse di lasciar perdere tutto; se me lo avesse detto, non avrei potuto dubitare. Ma non me lo disse.
– Tornando alla sua collaborazione con Ecclesia…
Dopo pochissimo tempo incontrai don Angelo che mi invitò a scrivere un articolo, e io gli dissi: “Mah! Io non sono un giornalista!” E lui: “Ma perché, io sono giornalista? Ci tengo molto, aspetto il tuo articolo”. Scrissi il primo articolo “Un ruggito del cuore” solo per obbedienza.
– Solo per obbedienza?
Mi pareva strano non obbedire perché volevo tornare ad essere figlio della chiesa. Era il febbraio 2016. Sbattere contro le stelle contiene tutti i pezzi pubblicati fino a dicembre 2019.
– Rifacendo il tracciato delle sue pubblicazioni in ordine cronologico, le comporta in qualche modo anche la revisione dei suoi trascorsi, scelte e rinunce, aspettative e timori?
Penso a volte alle aspettative e ai timori, ma non vedo revisioni da fare.
– Tende a separare l’esperienza del vivere da quella di autore o l’una si serve dell’altra?
Un autore si serve della realtà. E quella che più si conosce è la realtà del vivere quotidiano. Non posso separare nulla.
– Trovandosi in condizione di recluso, quale dei suoi libri vorrebbe per compagno?
In questi giorni che per davvero sono di reclusione, ecco, ce l’ho qui sul tavolo, Un pugno di more. Rileggo spesso le lettere di Roblehla al Naufrago. Fanno del bene anche a me.
– Persone e personaggi incontrati in ambito letterario che ama ricordare?
Ho già nominato Manacorda. Posso ricordare Salvatore Maira, che ha scritto una straordinaria prefazione a La lupa e il furore. Posso ricordare Vincenzo Consolo, a cui La lupa è dedicato. Ma sono molti quelli che venero, e molti altri cerco di dimenticarli.
– È già in cantiere il suo prossimo libro?
Se Dio vuole, spero di scrivere tanti articoli per Ecclesia da poterne fare un altro libro. Léon Bloy diceva: “Sono talmente dentro questo pensiero dell’Assoluto che, quando non mi si parla in modo assoluto, mi sembra che non mi si dica proprio nulla, e allora non capisco”. Il suo pensiero è totalmente mio.
– Le è mai capitato di distruggere qualche suo manoscritto?
Raccolte di poesie, cinque o sei, scritte negli anni dal ‘66 al ‘72.
– Dovendo dare alle fiamme un libro, suo o di altri, quale sceglierebbe?
Sì, ho qui in biblioteca un libro che darei davvero alle fiamme. Forse lo do alle fiamme ogni volta che mi capita di guardarlo da lontano. Non l’ho fatto sul serio perché tuttavia è un libro. Si tratta di un romanzo di quasi quattrocento pagine che leggevo nei momenti di pausa al semaforo. Avevo letto la recensione di un critico, noto e stimato anche da me. Ebbene, con grande sforzo – benché la scrittura fosse scorrevole – arrivai a pagina 158 e a quel punto mi sentii male, fisicamente sentivo una tale repulsione per le cose scritte… lasciamo perdere, va. In seguito feci una domanda a qualcuno. Mi rispose che quel libro non poteva non essere pubblicato perché l’autore era uno di quelli che superava le 30.000 copie vendute. Che dire?
– Ha mai smesso di credere nelle sue qualità di narratore?
Ho sempre creduto, e lo credo ancora, che quello che non va bene è il fatto di non essere ‘televisivo’.
– Se e quanto è stato determinante il suo destino di scrittore per il suo vissuto? come considera il suo talento e relative ripercussioni: un privilegio o uno svantaggio?
Uno svantaggio. Avrei potuto fare qualcosa di più per la famiglia.
Maria Lanciotti