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Gianfranco Cercone. “Shéhérazade” di Jean-Bernard Marlin
19 Aprile 2020
 

Uno dei miti, o dei pregiudizi, che allignano nella mentalità corrente, e che possono ritrovarsi anche nei film, è che i buoni o i cattivi siano essenzialmente tali; come se insomma si nascesse buoni o cattivi e si fosse destinati a mantenere per sempre questa identità.

Così formulata è un'idea evidentemente ingenua e irreale; eppure ad alcuni potrà sembrare più ragionevole un suo corollario: che cioè il delinquente, il criminale, sia divenuto tale per una specie di tara genetica, che sia un individuo “perduto”, che sia un’illusione da idealisti la prospettiva di una sua trasformazione, di un suo riscatto.

Il film Shéhérazade, diretto da Jean-Bernard Marlin, vincitore di un Premio César per la Migliore Opera Prima (così come i suoi due attori protagonisti hanno vinto un César come attori esordienti), è un film che in Italia non è mai stato distribuito nelle sale, ma che è approdato direttamente su Netflix, come capita ad alcuni film d'autore, “piccoli” da un punto di vista produttivo.

Il protagonista è un giovane delinquente, all’inizio del racconto appena uscito dal carcere minorile di Marsiglia. Dovrebbe essere affidato alla tutela della madre, la quale però si trova in una situazione lavorativa e familiare talmente disastrata che, pur volendo bene a suo figlio, non si ritiene in grado di occuparsi di lui. Il giudice pensa allora di affidarlo a un istituto di Tolone, ma lui non vuole saperne, fugge, e si riunisce a Marsiglia a una banda di giovani criminali, come lui di origine araba, pronto a tornare a guadagnarsi da vivere attraverso lo spaccio.

Già da queste informazioni, si sarà intuito che il giovane è di un temperamento ribelle, impulsivo, refrattario alle costrizioni sociali, per nulla disposto a ravvedersi, almeno secondo i principi che gli sono suggeriti dagli assistenti sociali. Beninteso: il film non lo descrive come un tipo truce e crudele. Se la sua fisionomia è contrassegnata una folta e disordinata massa di capelli crespi biondo-scuri, il suo carattere è solare, disposto all’allegria, a improvvise manifestazioni di affetto, che però possono essere rapidamente seguite da collere, a volte anche violente. È un tipo, insomma, che ha qualcosa del selvaggio, a volte buono, come, secondo una teoria, possono esserlo appunto i selvaggi.

I suoi amici della banda di Marsiglia non sono più disposti ad arruolarlo come spacciatore, essendo ormai lui un pregiudicato. Ma, per festeggiare la sua uscita dal carcere, gli pagano un incontro con una prostituta.

Ed è così che il giovane conosce Shéhérazade, la ragazza che dà il titolo al film, la quale, fin dal primo incontro, sfida la sua mentalità che non è soltanto maschilista, ma che anche, in base a principi religiosi – lui è musulmano - condanna, disprezza le prostitute. Ora, lei è disposta prostituirsi, ma non per questo a lasciarsi umiliare dal suo cliente, che lei tratta da pari a pari.

E se il ragazzo finirà per diventare il suo protettore, con un rovesciamento dei ruoli tradizionali non sarà per sua imposizione, ma perché la ragazza – giovane come lui, che ha bisogno di qualcuno che sia pronto a difenderla nella vita di strada – lo indurrà riluttante a quel compito. Riluttante, perché il ragazzo si innamora di lei; e favorire gli incontri di Shéhérazade con altri uomini, non soltanto fa sanguinare la sua gelosia, ma contraddice anche la sua idea di onore maschile.

Sono conflitti interiori che si acuiranno quando la ragazza finirà vittima di uno stupro, proprio ad opera dei ragazzi della banda del suo innamorato. E questi, guidato dall’amore, dovrà decidersi una volta per tutte a rescindere quei suoi vecchi legami, a rinunciare all’omertà, e a rinnovare le sue concezioni morali e la sua personalità.

È una vicenda che ricorda un po’ quella del capolavoro di Pasolini Accattone, che il film cita esplicitamente, per esempio quando accompagna immagini di vita marginale e degradata, con la musica sacra. Ma se il film di Pasolini aveva un esito tragico, il film di Marlin è più ottimistico. Anche grazie alla rieducazione al lavoro offerta dal carcere, il protagonista sembra diventare un uomo migliore, più civile e più moderno. Senza però che questa sua trasformazione risulti nel racconto forzata, imposta da un intento dimostrativo: perché anzi una qualità del film è che il disegno dei personaggi si mantiene sempre veritiero ed incisivo.

Da vedere, su Netflix.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 18 aprile 2020
»»
QUI la scheda audio)


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