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«Gli uccelli» di Hitchcock, il progresso che implode e le logiche del virus 
di Carlo Ruta
08 Aprile 2020
 

Ricordate Gli uccelli di Hitchcock? Quel film uscito nel 1963, tratto dall’omonimo racconto di Daphne du Maurier del 1953, fu un vero colpo di genio. Non fu tanto compreso dalla critica del tempo, mentre le sale si riempivano, per i suoi scenari orridi ma attraenti, la spettacolarità delle immagini e forse anche per la trama inusuale, lasciata quasi in sospeso, come se la fine, solo implicita, la si dovesse ricercare altrove. Lo stesso Hitchcock, come rimarcano le locandine del tempo, lo considerava il film forse più impressionante tra quelli che aveva diretto, che pure includevano quel caso fenomenale e inquietante che era divenuto Psycho, uscito tre anni prima. Le letture sono state tante, ma il senso ultimo dell’opera credo che si possa ravvisare nelle parole sentenziose dell’alcolizzato del villaggio, che tanto più oggi appaiono profetiche. Quell’uomo «finito», ultimo nella scala sociale degli States, annunciava a suo modo, citando la Bibbia, quel che adesso, 58 anni dopo, è a tutti drammaticamente chiaro: la natura, piegata dalle bizzarrie di questa modernità, tecnologica e violenta, è pronta a passare al contrattacco.

La storia umana è stata attraversata da epidemie letali, come la peste, la lebbra, il vaiolo e il colera, per dire delle maggiori e delle più ricorrenti, legate essenzialmente alla scarsità endemica di risorse, alle cattive condizioni di vita dei popoli, alla promiscuità, alle carestie, alle guerre, ai grandi disastri naturali. Ma la tarda modernità presenta un quadro epidemico diverso e più ampio, con infezioni che rompono in qualche modo il cliché storico. Sono i casi, ad esempio, dell’aviaria e della suina che, manifestatesi con virulenza solo negli ultimi decenni, hanno indotto scienziati e organismi internazionali a denunciare le condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi per l’industria alimentare. Ma è il covid 19 a fornire il riscontro decisivo di questa rottura, infettando paesi e sistemi come mai era avvenuto da quasi un secolo, in maniera emblematica e seguendo tragitti che lasciano intravedere perfino un senso, una logica.

Gli epidemiologi hanno documentato che il contagio ha preso le mosse soprattutto dai famigerati wet market, ambienti asiatici in cui cani, gatti, galline, capre ed esemplari di altre specie, ammassati in gabbie strette e malsane, vengono macellati a vista, per essere venduti o serviti a tavola. È un dettaglio della Cina di oggi, che con il suo il suo gigantismo industriale non evoca più la Via della seta, né gli itinerari delle spezie, né il Catai di Marco Polo. È, più in particolare, la Cina dell’Hubei, la popolosa provincia che fa capo a Wuhan, megalopoli di circa 12 milioni di abitanti, interconnessa con le aree più avanzate della Terra. Muovendo da tale «finestra» spalancata sul mondo, maggiormente in direzione ovest, il virus finisce con il seguire allora un canovaccio selettivo. I maggiori focolai si attestano infatti nelle aree più industrializzate dei paesi: la Lombardia in Italia, la Catalogna in Spagna, la regione parigina in Francia, la Renania in Germania, lo Stato di New York negli USA. A dispetto delle previsioni di non pochi osservatori, l’infezione fa fatica ad attecchire invece nell’Africa più profonda, che ha conosciuto pochi anni fa l’Ebola, il più «tradizionale» dei nuovi morbi, mentre progredisce leggermente in Sudafrica, lo Stato più facoltoso ed estroverso del continente, e in alcune aree relativamente connesse con l’Europa mediterranea, come l’Algeria e l’Egitto.

Continua a cedere perciò, in un quadro di omologazioni che non conoscono limiti, l’immagine di un Occidente e un Oriente distanti e polarizzati, ossia di due concezioni irriducibili della modernità e della tradizione. L’Asia in questa drammatica vicenda finisce con il rappresentare in sostanza l’interconnessione più spavalda del mondo contemporaneo, cioè il tutt’uno del globale. Si rovescia inoltre lo schema corrente secondo cui il contagio virale, quasi per una legge di natura, che in realtà non esiste, dovrebbe muovere dal mondo «povero» al mondo «ricco», in un ordine concettuale in cui contano più le risorse tecnologico-industriali di quelle morali e, soprattutto, solidali, che nel mondo degli «ultimi» costituiscono per forza di cose il pilastro fondamentale della vita sociale. Pensiamoci: solo dai Tuareg e da popoli della stessa tempra, vissuti per secoli tra le stesse difficoltà, poteva nascere una massima come quella, davvero spettacolare, che afferma: «il tuo nemico è l’amico che non conosci». E si sta parlando di una terra, l’Africa, che ha vissuto, vive e vivrà ancora, chissà per quando, in un’ecatombe di guerre, carestie, epidemie letali dal timbro antico, siccità e ogni genere di calamità civile.

La realtà, sovvertendo non pochi luoghi comuni, inscena insomma paradossi, a fronte della catastrofe che stanno vivendo i paesi ad economia avanzata, che alla fine, come ormai appare evidente, conteranno centinaia di migliaia di morti, se non addirittura milioni, e dovranno fare i conti con un dopo non meno difficoltoso. Il fatto che il virus non stia scatenandosi nei luoghi-simbolo della povertà ma, di preferenza, nel mondo bene ordinato dei sistemi egemoni, come i corvi nella cittadina di Bodega Bay nell’area metropolitana di San Francisco di cui narrava Hitchcock, ci permette di capire qual è il messaggio e, più ancora, chi è il destinatario.

Il mondo ricco e potente delle metropoli industriali e finanziarie è chiamato oggi a risposte cruciali, che non appaiono tuttavia neppure sottintese in questi giorni drammatici, in cui la partita, in Europa ad esempio, si gioca tra l’interesse egemonico-politico e il ricatto finanziario. L’impressione è quella di mondi che, pur dominatori del PIL mondiale, appaiono sempre meno capaci di leggere la storia e il presente, mentre si parla, sempre più a sproposito al cospetto dei tanti morti, di «occasione storica». Si sente dire che niente sarà più come prima, ma ci si rapporta alla realtà con gli appetiti di sempre, mentre irrompono in scena, appunto, i veri «padroni del vapore». Non si è più lucidi in realtà di quel Luigi XVI che alla notizia della caduta della Bastiglia, nel 1789, domandò al duca di Liancourt se fosse in atto una «rivolta», per sentirsi rispondere che si trattava di una «rivoluzione».

Da decenni viene documentato che si è oltre il livello di guardia. E c’è chi lo ha spiegato in maniera esemplare, con una messe di argomenti, come il pensatore tedesco-statunitense Hans Jonas, quando ha sottolineato le responsabilità dei sistemi contemporanei rispetto alla natura, alle generazioni ancora non nate e a tutti i viventi. Si pensino bene allora le mosse da compiere, perché lo scaccomatto, corroborato dalle stoltezze di chi insiste a credersi invulnerabile, rischia di essere davvero dietro l’angolo.


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