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Gianfranco Cercone. “Dov’è il mio corpo?” di Jérémy Clapin
09 Marzo 2020
 

È certo una delle ragioni di fascino dei disegni animati, non tanto la rassomiglianza esteriore tra le creature evocate dai disegni e le creature reali e viventi, ma soprattutto la capacità di catturare con precisione, con esattezza – anche con un tratto essenziale, stilizzato – di catturare le loro espressioni; e attraverso quelle espressioni i loro sentimenti, anche i più sfumati, i più intimi.

Nel caso del film francese Dov’è il mio corpo? di Jérémy Clapin, tratto da un romanzo di Guillaume Laurant, lo sceneggiatore del Favoloso mondo di Amélie (Dov’è il mio corpo? è stato candidato all’Oscar per il Miglior Film d’Animazione, e, in quella stessa categoria, ha vinto pochi giorni fa il Premio César), quei sentimenti, poco usuali in un cartone animato, sono soprattutto di sconforto, di solitudine, anche se accompagnati da una timida speranza.

Il protagonista del racconto è un ragazzo che svolge uno di quei lavori precari, sottopagati e stressanti che, almeno nei film, sembrano ormai caratteristici delle nostre città: consegna pizze a domicilio. È orfano di entrambi i genitori. Divide una camera con un invadente coinquilino, ospite di uno zio che evidentemente non gli vuole bene. In una città ostile, che sembra abitata da individui solitari come lui, diffidenti l’uno dell’altro, non c’è da stupirsi che quando si innamora, ciò non avvenga con una persona che ha incontrato per strada o in un locale, ma attraverso la voce di una ragazza che ha udito al citofono. Eppure si aggrappa a quella voce, e al sogno d’amore che essa ha formato nella sua mente, come all’occasione che potrebbe finalmente riscattare la sua lunga solitudine. E dunque si rianima, trova la forza per cambiare lavoro, inventa delle strategie di avvicinamento, di seduzione. Ma le sue iniziative si scontrano con la freddezza che, stando al film, sembra essersi ormai impadronita degli uomini e delle donne.

A questa vicenda, più realistica – dove il disegno è in parte ricavato da riprese di personaggi e ambienti reali – nel racconto se ne alterna una seconda, surrealistica, quella che forse ha convinto l’autore a scegliere il mezzo del disegno animato. Una mano amputata – che, si capisce presto, è la mano dello stesso protagonista – fugge da un laboratorio di anatomia, e attraversa le mille insidie della città per ricongiungersi al suo proprietario.

Può sembrare un’invenzione del tutto astrusa, soltanto effettistica. E invece corrisponde a una realtà sentimentale. Prima ancora che amputato nel corpo, il protagonista è “amputato” nell’anima. La mano che gli manca equivale e quell’integrità, quell’armonia, quella solarità interiore che per lui sembrano relegate all’infanzia; che egli ha perduto forse dopo la morte dei suoi genitori; e di cui soltanto le persistenti sensazioni tattili della mano – quando da bambino accarezzava la sabbia, o suonava il pianoforte – conservano la memoria.

Le due vicende non giungono a un chiaro lieto fine. Sono sottilmente lasciate in sospeso.

Si può forse rimproverare al racconto una certa enfasi nella resa dei sentimenti, sia che si tratti della desolazione della vita in città, sia dell’idealizzazione dell’infanzia. Ma quando il racconto entra nel vivo dei rapporti tra gli individui – nella lotta in ognuno di loro, in particolare nei due protagonisti, tra fiducia e diffidenza, tra speranza e scoraggiamento, tra la volontà di vivere e quella di morire – risulta delicato e veritiero.

Si tratta, nel complesso, di un film da vedere. Uno di quei casi in cui il cinema d’autore si rifugia su Netflix.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 7 marzo 2020
»»
QUI la scheda audio)


 
 
 
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