Alberto Caviglia, Olocaustico
Giuntina, 2019, pp. 300, € 18,00
Il luogo d’azione è Israele. L’anno il 2023. Lui è David Piperno, giovane ebreo romano trasferitosi da Roma a Tel Aviv. Loro – gli ultimi testimoni della Shoah. Deus ex machina – il lucertolone Malach. L’autore, invece, è Alberto Caviglia che, accantonati, forse, i panni del regista, suo è il mockumentary sull’antisemitismo Pecore in erba, indossa ora quelli dello scrittore con il romanzo Olocaustico, edito dalla Casa Editrice Giuntina.
Protagonista è dunque David Piperno che su consiglio della propria madre, la tipica yiddish mame, da Roma si trasferisce a Tel Aviv con un sogno nel cassetto, quello di girare il film di fantascienza La lucertola mutante e diventare un regista da Oscar. Il tentativo di proporre il film però fallisce e David per sbarcare il lunario si ritrova con un gruppetto di amici a riprendere, per conto dello Yad Vashem, le testimonianze degli ultimi sopravvissuti alla Shoah. Quando però l’ultimo sopravvissuto viene a mancare David, per conservare il proprio lavoro, non trova di meglio che creare un nuovo testimone. Il prescelto è il barbone Mordechai che, istruito a puntino e con un tatuaggio nuovo di zecca, supera brillantemente la prova e viene accolto dallo Yad Vashem e dal resto del mondo come l’ultimo dei testimoni. L’inganno viene però svelato e la fake news finisce con lo screditare l’istituzione dello Yad Vashem e mettere in dubbio, fino a negarla, l’esistenza della stessa Shoah. David si ritrova così risucchiato dal vortice dell’antisemitismo e dei negazionisti ma, tra birre e playstation, e l’eterna fidanzata Sharona e i discorsi immaginari con Philip Roth e Itzhak Rabin, riuscirà a mettere a punto un piano per contrastare i negazionisti sul loro stesso terreno. E il regista che c’è in David si ritroverà a girare, in un crescendo di sorprese e colpi di scena, un falso documentario su un lucertolone conosciuto come Malach o Creatura dell’acqua che al pari di un deus ex machina saprà rimettere ogni tassello al suo posto e riaffermare la verità storica della Shoah.
Questa, in breve, la trama del romanzo di Alberto Caviglia, un libro che è un gioco d’incastri per come continuamente si bilanciano profondità e semplicità, reale e surreale. La profondità è nei temi che vengono proposti e affrontati, ossia il negazionismo e il revisionismo, a cui si affiancano lo spettro dell’oblio e quello della falsificazione e della manipolazione di un evento che è verità storica. Il discrimine sottile tra verità e falsificazione, il loro scivolare l’uno nell’altro, con tutte le relative conseguenze, emerge, in Olocaustico, con pienezza, così come anche emerge il fatto che senza memoria e testimonianza il negazionismo e il revisionismo trovano spazio per radicarsi con sempre maggiore facilità, specie in questo nostro sistema in cui la comunicazione corre sul web in modo sempre più veloce e superficiale. La semplicità invece è nel linguaggio, un linguaggio immediato e capace di arrivare a tutti coinvolgendo anche le generazioni più giovani. Del resto giovane lo è anche Alberto Caviglia e sa qual è il modo migliore di condensare ciò che è stato, così chiamava il poeta Paul Celan la Shoah, in un linguaggio che possa essere interiorizzato e elaborato dalle nuove generazioni.
Invece, reale e surreale. Due piani paralleli ma capaci di specchiarsi e riflettersi l’uno nell’altro e di arrivare, stranamente trattandosi di dimensioni parallele, addirittura ad intersecarsi. Il surreale è nella trama, per quel suo capovolgere il vero nel falso e poi il falso nel vero, e per il modo in cui una verità storica viene prima decostruita e poi riaffermata. Il reale è invece nei richiami continui e attenti, per esempio, allo Yad Vashem, a chi lo ha progettato, a come lo ha concepito, o ancora a Mengele e ai suoi esperimenti. Un surreale e un reale che si sostengono e insieme sanno dare sostanza al libro, oltre a rivelarci la creatività esuberante del suo autore, una creatività esuberante, è vero, ma sempre ben incanalata e che sa muoversi con equilibrio nell’arco dell’intero romanzo. E con la creatività un altro elemento lega i tasselli di Olocaustico e la profondità/semplicità e il reale/surreale di cui si è parlato. È quell’umorismo che si inserisce nel solco della migliore tradizione ebraica. Un umorismo che non è mai fine a se stesso, ma piuttosto una modalità/espediente per tenere il lettore ancorato sulla pagina, per coinvolgerlo azione dopo azione e trascinarlo nel romanzo. E oltre all’umorismo ad ancorare il lettore sulla pagina è anche l’effetto sorpresa, niente infatti è prevedibile nel ritmo serrato di questo romanzo.
Ma, ferme queste considerazioni, qual è il valore di Olocaustico, un romanzo dalla vena sarcastica e tragicomica dove si sorride ride e riflette? Il valore di Olocaustico sta nell’aver ben individuato il pericolo del negazionismo, e quello dell’oblio e della perdita di memoria, e nell’aver cercato una modalità per trasmettere ai più giovani e alle generazioni che verranno la Shoah. Quando non ci saranno più testimoni diretti come si potrà trasmettere la memoria di ciò che è stato? Chi non ha vissuto la Shoah non può averne memoria o ricordo, e allora diventa importante trovare il modo, un modo coinvolgente, per farla conoscere e continuare a trasmettere. Olocaustico si muove in questa direzione, apre e fonda un percorso che potrebbe anche non essere il migliore possibile ma lo apre e lo fonda e questo è ciò che importa. Alberto Caviglia poi, lo sappiamo, è anche un regista e questo gli darà la possibilità, partendo da Olocaustico, di continuare questo percorso in altre forme, affinandolo anche, e di raggiungere un pubblico e un tessuto sociale più vasto ed eterogeneo di noi lettori. E dunque, a questo punto, non ci resta che armarci di pazienza e aspettare Alberto Caviglia alla sua prossima prova, da regista o scrittore che sia.
Silvia Comoglio