Fra i modi possibili con cui raccontare fatti collocati nel passato, c'è l'uso di un filtro che si può definire: il senno di poi. E cioè: se i personaggi vivono le vicende di quel loro passato evidentemente ignari del loro destino, l'autore invece, forte della propria esperienza di vita, nel momento in cui racconta quelle vicende fa balenare il presagio di come esse si svilupperanno, di come quei personaggi si trasformeranno.
Così, quando Gabriele Muccino nel suo film intitolato Gli anni più belli, ci mostra tre ragazzi, tre studenti di liceo, amici per la pelle, che in una calda giornata di sole, negli anni Ottanta, vanno a fare il bagno al mare, allegri e spensierati, fa già intuire che in futuro non saranno più tanto allegri, che la loro bella amicizia andrà in crisi o si spezzerà. E quando uno dei tre si innamora di una compagna di scuola, con tutta la passione e l'assolutezza che si attribuiscono all'epoca dei primi amori, ebbene: affiora la previsione che i due innamorati forse si separeranno, o che il loro amore si rivelerà meno solido di come appare. E quando più tardi uno dei tre amici prenderà la laurea in Legge, e nell'esame conclusivo discuterà della nobile funzione dell'avvocato d'ufficio, che deve contribuire a realizzare il principio per cui “la legge è uguale per tutti”, anche per chi non può permettersi il costo di un avvocato, ecco che si può intuire che forse, nella sua professione, si dimostrerà meno altruista, meno disinteressato, di come ora si presenta.
Sono, queste ed altre, delle previsioni che in tutto o in parte si realizzeranno. Anche perché le vicende raccontate da Muccino non vogliono essere casi individuali – e dunque più imprevedibili, più misteriosi – ma vicende tipiche di una generazione; così come tipici tendono ad essere i suoi personaggi, riassumibili in una o due caratteristiche: c'è l'idealista, appassionato di letteratura, così coerente o così rigido nel suo idealismo sentimentale, da attendere per anni la ragazza di cui si era innamorato, anche dopo che lei lo ha abbandonato e tradito più volte; c'è l'avvocato cinico, senza scrupoli, che alla fine bada soltanto ai soldi e alla carriera; e c'è il giornalista, eterno precario, sbandato, ma gioviale e di buon cuore.
Va detto che Muccino – aiutato da un gruppo di bravi, a volte bravissimi attori – conferma le sue notevoli doti di narratore popolare – il suo modello è qui evidentemente l'Ettore Scola del film C'eravamo tanto amati. E il suo racconto avvince, a volte diverte, a volte commuove, e non è privo di sottigliezze. Ma l'impressione complessiva che lascia il suo film è di un lungo viaggio tra schemi già depositati nella nostra memoria.
È un film che, a mio parere, ha un po' le stesse qualità e gli stessi difetti, di un altro film, molto celebrato, il sud-coreano Parasite, di cui ho già parlato in questa rubrica, che mette in scena, con indubbia abilità, i clichés, alcune qualità convenzionali, attribuite ai poveri e ai ricchi, richiamandosi a un fenomeno molto noto: la crescente divaricazione tra le due classi sociali.
E chissà che il consenso raccolto dai due film – internazionale, addirittura planetario per Parasite; al momento soltanto nazionale per il film di Muccino, che è al primo posto tra gli incassi in Italia – non sia dovuto anche al fatto che non ci dicono nulla di nuovo sulla vita o sul mondo, ma ci fanno restare nell'ambiente, in fondo confortevole, per nulla destabilizzante, delle idee risapute.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 22 febbraio 2020
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