David ormai da tempo trascorre ore e ore nel suo piccolo appartamento tra tele e pennelli, libri e quaderni, fogli sui quali disegna schizzi o qualcosa da ricordare, da captare nell’interrotto fluire di pensieri.
Ogni tanto si affaccia alla finestra e punta lo sguardo lontano, verso un punto indefinito dell’orizzonte, da dove vede elevarsi figure che colmano il vuoto che avverte intorno.
Il silenzio lo avvolge, lo riscalda, lo trasporta verso luoghi mai visti, tra infinite braccia che lo circondano.
Un cerchio immenso. Dalle braccia affiorano visi noti, familiari e anche visi sconosciuti che emanano odori e sapori di una vita perduta, di una vita che torna alla memoria.
Memoria del passato. Ma quale passato? Quello fisico della materia o quello dello spirito ? Entrambi.
Nitida appare la figura della madre, consunta dal dolore, morta da qualche mese nel freddo e nella nebbia di una città del nord. Alta, bruna, in una nuvola di veli bianchi Matilde gli si presenta accanto al padre Jvan Jawlensky, un ebreo russo che, convertitosi al cattolicesimo, ella aveva sposato nel lontano 1935 nella cattedrale di Palermo.
La nube bianca che avvolge la madre si sperde nella luce infuocata del tramonto.
Vede il porto e ricorda l’imbarco su una nave che agli occhi del piccolo David appariva immensa e poi, uno dopo l’altro, sfilano nella sua mente i quartieri di Brooklyn .
Compaiono e scompaiono i compagni d’infanzia, i giuochi, l’aria di quella terra con le sue fragranze, le sue ore mattutine affollate di ragazzi e ragazzine che andavano a scuola.
Ecco apparire il capo canuto e l’indimenticabile sorriso del maestro di pittura.
Visione e dramma, passato e memoria che David ha fermato sulle tele, dominate dalla tragedia e dal silenzio, dal buio e dalla bellezza.
– La realtà storica – ripete David a stesso – non esiste più, esistono le immagini, i sentimenti che ho fissato in questi quadri, esiste la memoria.
– Ed io – si chiede – io esisto?
Aspetta la risposta. Non viene.
Gli uccelli volteggiano in cielo e sull’immensa tela azzurra si disegna un’effige umana che ha una fisionomia interna e sepolta, quella del padre ucciso nel forno crematorio di Auschwitz nel 1943.
Il padre s’alza dalla cenere, di là dalla maschera del tempo prende forma, cerca il volto che aveva prima che il mondo fosse creato, si muove, avanza: è vivo!
David sente la sua voce: – Sono spirito, figlio mio!
Il pittore posa lo sguardo sui quadri appoggiati alle pareti.
Con i pennelli ha trasformato quei ricordi, quella morte o ogni dissolvimento in tagli di lame. Il fumo acre, che saliva dai campi di sterminio e invadeva le città, è disceso sulle sue tele.
– Tu, figlio mio, sei testimone di un amore che vince la barbarie, tu dirai anche la nostra verità.
David guarda ancora verso il cielo, la figura del padre resta là.
È una statua.
Manda messaggi che non arrugginiscono. Come le statue dei giardini parla solo agli uccelli, parla solo agli alberi, ma parla. Basta ascoltare. Parlano tutti i morti, basta saperli ascoltare.
– Ti riconosco, padre, e ti conoscono gli alberi, i monti, le acque profonde, tu sei “altro”.
– Sono spirito! figlio mio. E spirito è anche l’uomo che ricorda. La Storia è spirito.
Pure la Storia che riferisce gli avvenimenti di Auschwitz è spirito.
– Ti ho visto, padre, mentre scrivevi in cielo il tuo nome con lettere di fumo.
– Non ci sono segni per scrivere quei nomi.
Non ci sono parole per narrare gli orrori di quel male.
Crea tu, figlio mio, pezzo per pezzo, quel linguaggio con i colori, con i pennelli, con la musica, crea tu, perché tutto ciò che lo spirito non esprime, resta materia inerte, resta notte eterna.
***
I dipinti di Davide sono là, appesi alle pareti delle più prestigiose gallerie d’arte: raffigurazioni compatte, inquiete, dense di pensieri invitano all’ascolto, ma non sempre trovano, nella città distratta, assordante, volontà d’ascolto.
Un vuoto lo circoscrive.
Quei corpi senza colore continuano a girare su se stessi e intorno a noi. Diventano ombre su ombre che avanzano e fuggono, si confondono nei viali, tra i rami solenni e scuri degli alberi.
Dai dipinti traspare una tetra luce, quale segno di autentica, viva sofferenza ed un illimitato bisogno di dialogo; si trasforma in voce dalla consistenza del diamante che non potrà svanire nel vuoto.
Zampilla con l’acqua dalla fonte e va… va… a… fluire nella terra arida.
È nel vento che soffia in tutte le stagioni, è nell’aria che respiriamo, nel ritmo delle ore, giorno e notte.
È nel cinguettio dell’uccello solitario sulla pietra, nel muschio umido del muro, nei sentieri dei giardini invasi dall’erba.
Nelle strade chiama per nome ogni passante, si pone accanto al suo incedere con il silenzio della fame, del gelo e del dolore.
Fa irruzione in ogni anfratto e non si stanca mai di narrare a tutti, uomini e cose, ciò che è avvenuto e quello che non dovrebbe più accadere.
Giuseppina Rando
(Da Nel segno, Pungitopo editrice, Marina di Patti, 2010)
David Olère, pittore, era nato a Varsavia il 19 gennaio 1902, naturalizzato francese nel 1937. Arrestato il 20 febbraio del 1943 dalla polizia francese, venne deportato da Drancy ad Auschwitz-Birkenau. Evacuato di nascosto il 19 gennaio 1945 a fronte dell’avanzata dell’Armata rossa, sopravvisse alla “marcia della morte” che lo condusse a Mauthausen ed Ebensee (Austria), dove venne liberato dall’esercito americano il 6 maggio 1945. Tornato dai campi, non smise di testimoniare – con i disegni e i quadri – l’orrore di quegli anni. È morto il 2 agosto 1985 nei pressi di Parigi.