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Maria Lanciotti. “La Pantera siamo noi” trent’anni dopo 3 
Il Movimento pacifista la “Pantera” all’interno de “La Sapienza” di Roma nella rivisitazione di Daniele Mutino, musicista e cantastorie, fra gli occupanti della Facoltà di Lettere
'Novanta Teatro Movimento', 1992. Spettacolo a cappello a Piazza Navona 
22 Gennaio 2020
 

È passato del tempo, tanto tempo, e tante cose sono cambiate; forse non ruggisco più con l’esaltazione e la spavalderia d’un tempo ma ancora oggi io mi sento parte del movimento della Pantera, sento sempre che esiste un filo che mi lega a tutti coloro che hanno fatto parte di quel movimento, a tutto quel che abbiamo condiviso, e che questo filo, almeno per quel che mi riguarda, è ancora vivo nella mia ricerca e nella mia arte, e nello spazio profondo della mia interiorità: ad oggi la Pantera non è stata catturata né tantomeno uccisa”.

 

 

«Della Pantanella si occupò (malamente) anche l’allora sindaco di Roma Franco Carraro (craxiano) che ne ordinò lo sgombero forzato.

Si trattava di un momento storico particolare, stava per iniziare la prima Guerra del Golfo, non ci si fidava di tutti quegli immigrati auto-organizzati e si preferì pensare alla sicurezza piuttosto che ai valori e alle potenzialità positive di quella esperienza. Ci fu un primo sgombero notturno, un blitz delle forze dell'ordine in cui furono portati via (nessuno seppe al momento dove) tutti gli immigrati non in regola, che erano però una minoranza (ancora, per la legge italiana, non era così difficile essere in regola come invece lo è adesso). Poi una settimana dopo ci fu lo sgombero finale: una scena che non dimenticherò mai.

Era il 31 gennaio del 1991. Faceva freddo. Nella strada fuori dalla Pantanella c’erano tanti cellulari di polizia e carabinieri e alcuni camion dell'esercito, e dappertutto uomini armati in divisa di vari colori. Dentro la Pantanella alcuni immigrati cantavano Give peace a chance, la celebre canzone di John Lennon, richiamando alla memoria le lotte dei movimenti pacifisti degli anni sessanta, quasi a sottolineare che noi occidentali in quel momento stavamo tradendo le nostre promesse al mondo.

Noi studenti della Pantera eravamo lì, in gruppo, dietro il cancello della Pantanella, ad abbozzare un presidio, una sorta di resistenza passiva, che è subito finita nel momento in cui, dopo una breve trattativa, i capi degli immigrati hanno deciso di consegnarsi alle forze dell'ordine: allora gli occupanti dell’ex pastificio vennero separati e divisi in gruppi dai militari, per essere poi caricati su vari pullman e portati via, senza sapere dove. Mentre loro si muovevano nella rassegnazione, in perfetto silenzio, noi assistevamo impotenti, col cuore gonfio di rabbia e dolore.

A documentare quegli avvenimenti, anche in quell’occasione, l’unica telecamera era quella di Carmelo Albanese, e la macchina fotografica era quella di Tano D’Amico. Come per beffa, i giornali scrissero poi che lo sgombero era stato ordinato perché le strutture edilizie della Pantanella servivano proprio all’Università “La Sapienza” che ne era proprietaria: lo sgombero serviva quindi per aiutare l'istituzione universitaria, a cui non bastavano aule e spazi! Molte persone benpensanti, scrittori, politici, giornalisti, che inizialmente si erano opposti allo sgombero, credettero a questa versione dei fatti e alla fine approvarono.

Dopo alcuni mesi, alla Pantanella comparve un grande cartello con su scritto “Vendesi uffici ed appartamenti”, e poco dopo, nell’edificio più esterno, fu realizzato uno dei primi Bingo di Roma. La Pantanella fu davvero una grande occasione mancata: pensando a quante strutture di quel tipo sono abbandonate a Roma e in Italia, c’è da chiedersi come sarebbe potuta essere l’Italia oggi se il progetto di Monsignor Di Liegro fosse stato realizzato, creando un precedente per una diversa idea d’integrazione… e come sarebbe diventata l’università stessa, se avesse sfruttato quell’occasione di incontro e conoscenza tra culture e mondi diversi dal nostro… Ma così non fu: si accettò e giustificò lo sgombero, avvallandolo, e quello fu uno spartiacque: quel giorno comincia l’era contemporanea del razzismo italiano.

Al tempo dello sgombero della Pantanella, la nostra occupazione era già finita da molti mesi, eppure noi studenti del dipartimento di antropologia della Pantera eravamo ancora insieme: andavamo alla Pantanella per conoscere la realtà degli immigrati che ci vivevano, e ancora ci aggiornavamo continuamente sulla situazione critica tramite catene telefoniche che negli ultimi tempi viaggiavano anche di notte, cosa che ci consentì di essere lì, quel gelido mattino, a fare il presidio.

A prescindere dall’esperienza della Pantanella, ben oltre i limiti temporali dell’occupazione universitaria, il lavoro svolto dagli occupanti del dipartimento di antropologia fu visibile anche a chi non aveva fatto parte di quell’esperienza: per molto tempo fummo riconosciuti infatti dagli altri studenti e dagli stessi professori come “gli studenti di antropologia della Pantera”, riuscendo ad avere la forza e la coesione per proporre ed ottenere da alcuni docenti il riconoscimento di programmi d’esame suggeriti da noi, o addirittura basati su seminari da noi promossi ed autogestiti, alcuni dei quali progettati già durante l’occupazione. Di questi ne ricordo almeno due, inclusi nei programmi di antropologia sociale:

- il seminario di Rubem de Almeida, antropologo impegnato in Mato Grosso con gli indios Guaranì;

- l’incontro con due rappresentanti dell’etnia Yanomami (popolo indio che vive nella foresta amazzonica brasiliana) venuti a denunciare il genocidio subito dalla loro gente a causa degli interessi economici che incombono sulla loro terra.

Le nostre istanze di ricerca venivano accolte non solo da alcune cattedre che gravitavano intorno al dipartimento (in particolare etnologia, religioni dei popoli primitivi e civiltà indigene dell’America), ma anche, e soprattutto, da due cattedre fuori facoltà che davano esami e tesi anche agli studenti della Facoltà di Lettere:

- antropologia sociale di Antonino Colajanni (studioso dei mutamenti sociali) Facoltà di Scienze Statistiche, con il ricercatore Roberto De Angelis (antropologo delle società complesse);

- filosofia teoretica II, Facoltà di Filosofia a Villa Mirafiori, con Rodolfo Calpini (ricercatore di filosofia teoretica a “La Sapienza”);

Entrambe le cattedre avevano cominciato a collaborare con noi fin dai tempi della Facoltà di Lettere occupata.

Rodolfo Calpini aveva iniziato un seminario sull’etnocidio, che fu poi portato avanti per anni, dal quale traemmo molto alimento per le nostre riflessioni critiche all’oggettivazione antropologica.

Roberto De Angelis, invece, aveva praticamente vissuto insieme a noi dentro la facoltà occupata, quasi come un occupante, collaborando in alcuni casi con Carmelo Albanese nel realizzare le riprese video di alcuni momenti di quell’esperienza, e coinvolgendoci verso due filoni seminariali da lui promossi, entrambi molto dinamici ed interattivi, legati alla contemporaneità.

Il primo di questi fu l’hip hop dei rappers e dei writers afroamericani, a quel tempo ancora relativamente poco conosciuto in Italia, che ci venne indicato come nuovo linguaggio antagonista, anche sulla base delle teorie dell’antropologo francese George Lapassade (considerato uno dei padri dell’analisi istituzionale) invitato a Roma dalla cattedra di antropologia sociale. Lapassade fece un seminario in cui sosteneva anche la tesi che questo linguaggio antagonista si potesse esportare in Europa, e per supportare tale tesi fece venire ad esibirsi in Facoltà un gruppo di rappers dei sobborghi parigini, oltre al gruppo rap romano politicizzato Onda Rossa Posse (sorto in seno all’emittente radiofonica Radio Onda Rossa, vicina all’Autonomia Operaia).

Roberto De Angelis si fece promotore anche di un altro seminario molto particolare, sui linguaggi dell’irritazione dentro le carceri italiane. Si trattava di comprendere come alcuni comportamenti fisici ed espressivi riuscissero ad esprimere la frustrazione e il disagio dei detenuti, trasformando il dolore vissuto in comunicazione, attraverso codici espressivi non ordinari. La ricerca si apriva anche ai linguaggi dell’erotismo, in particolare in relazione ai transessuali detenuti in carcere.

Si trattava di una forma di osservazione oggettivante estrema, considerato che il nostro oggetto di studio sarebbero stati i comportamenti sofferenti di persone penalizzate da una negazione della libertà che già le rendeva in qualche modo ‘oggetto’ dell’istituzione carceraria. Va considerato, però, che alla base di questo seminario c’erano degli studi fatti da Renato Curcio e Giorgio Panizzari, detenuti essi stessi con lunghissime pene, e la ricerca era partita di fatto dai loro stessi corpi e dalla loro stessa esperienza. Ma questo era anche un aspetto problematico della ricerca, visto che si trattava di far collaborare un gruppo di studenti del movimento con degli esponenti del terrorismo degli anni settanta. Alla fine, il progetto fu abbandonato: esso prevedeva che noi studenti interessati entrassimo in carcere a studiare direttamente sul campo la questione, ma la cosa fu bloccata dalle autorità carcerarie che negarono i permessi necessari.

Di fatto, che l’oggettivazione dell’Altro potesse essere considerata come una vera e propria forma di violenza fu, nel nostro percorso comune, una presa di coscienza che emerse poco alla volta, e in modo non univoco (un po’ come per la critica ai linguaggi verbali e spettacolari della politica). C’era fin dall’inizio tra di noi una volontà istintiva di non essere noi stessi oggettivati dal mondo esterno, per come esso poteva descriverci: la presenza continua della telecamera di Carmelo Albanese all’interno del movimento, prima, durante e dopo l’occupazione, era servita a renderci di fatto soggetti nel documentare ciò che stavamo vivendo. Per analogia alcuni di noi (non tutti) pensarono che doveva essere contestata l'oggettivazione dell'essere umano in quanto tale. Dal momento che l’oggettivazione dell’Altro, nell’osservazione e nello studio, era la base stessa della metodologia antropologica, per noi studenti di antropologia fu logico pensare che andasse anche trovata un’alternativa: ci mettemmo quindi a ragionare su possibili metodologie in cui lo studio dell'Altro essere umano potesse svilupparsi attraverso forme rispettose dell’altrui soggettività, ripensando tutta l'antropologia come confronto critico paritario tra identità ed alterità.

L’idea non era innocua, e aveva una forte valenza anche sociopolitica, evidente per esempio nello stravolgimento che avrebbe avuto il ruolo dell’antropologia nell’ambito delle strategie di sviluppo dell’Occidente in aree a forte presenza indigena. Questo emerse per la prima volta in termini espliciti e polemici in occasione del seminario autorganizzato con l’antropologo brasiliano Rubem de Almeida, il cui approccio nei confronti degli indios Guaranì non convinse molti di noi: il progetto da lui diretto in Mato Grosso, denominato Kaiowà-Nendeva dal nome delle tribù Guaranì coinvolte, ci era sembrato molto lontano dall’idea di un confronto paritario tra culture diverse, ed era piuttosto finalizzato a gestire nel modo più indolore possibile l’integrazione degli indios all’interno dei parametri di sviluppo imposti dal sistema capitalistico, che non erano minimamente messi in discussione.

A confermare le perplessità di alcuni di noi, contribuì l’esperienza negativa di una nostra compagna, Roberta, che era partita per il Mato Grosso con l’obiettivo di preparare la propria tesi di laurea sul campo, assegnatale dal professor Antonino Colajanni proprio sul progetto Kaiowà-Nendeva di Rubem de Almeida.

Nella nostra originaria idea comune, quella di Roberta avrebbe dovuto essere solo la prima di una serie di partenze per il Mato Grosso; anch’io stavo piano piano mettendo da parte i soldi per partire. Ma in America Roberta ebbe un’esperienza traumatica, incontrando una realtà che sembrava piuttosto confermare le perplessità emerse in alcuni di noi durante il seminario di Rubem: nei villaggi la condizione dei Guaranì era estremamente critica, addirittura drammatica, sottratti alla possibilità di sviluppare la loro vita tradizionale vivevano nella miseria e nella disperazione, e molti si suicidavano o sviluppavano aggressività. Fu così che molti di noi – tra cui gli studenti del mio gruppo di teatro, di cui Roberta aveva fatto parte attiva prima di partire – ci distaccammo silenziosamente da quei nostri compagni che continuarono a collaborare con antropologia sociale e che, con l’obiettivo di lavorare insieme a Rubem in Mato Grosso o in altre realtà simili, promossero ulteriori seminari autogestiti e tesi di laurea sul campo, e costituirono, a questo fine, un’associazione chiamata Cultura e società.

All’interno del gruppo di antropologia, si determinò quindi, in opposizione con ‘loro’, un nuovo ‘noi’, di coloro che non credevano più alla genuinità morale dei riferimenti che prima ci si era dati insieme, a partire da Rubem de Almeida fino allo stesso Antonino Colajanni, anche se rimaneva un rapporto di stima ed amicizia assolutamente forte e radicato, direi inviolabile, con Roberto De Angelis. Finimmo così per ritrovarci aggregati nel corso sull’etnocidio condotto da Rodolfo Calpini presso la cattedra di filosofia teoretica, in cui potemmo sviluppare ampiamente la nostra critica all’oggettivazione antropologica: a filosofia teoretica eravamo fuori dal dipartimento di discipline demo-etno-antropologiche, e addirittura fuori dalla facoltà, e questo ci diede la libertà mentale di prendere, insieme a Rodolfo Calpini, posizioni polemiche molto dure ed esplicite. Ad un certo punto eravamo diventati una cellula impazzita all'interno della vita universitaria, facevamo spesso irruzione all’interno dei convegni di antropologia, prendendo la parola per contestare quel che veniva detto, proferendo pubblicamente precise accuse agli stessi docenti con cui poi avremmo dovuto poi sostenere degli esami!

Nel 1995, per esempio, sviluppammo una vera e propria contestazione nei confronti delle celebrazioni per il cinquecentenario della scoperta delle Americhe, stigmatizzando il fatto che in tali celebrazioni non fosse stata data alcuna voce al pensiero indigenista e alle sue istanze politico-culturali, ed in generale non fosse stata minimamente sviluppata alcuna critica del processo di occidentalizzazione. Contestammo anche il fatto che a tali celebrazioni prendesse pienamente parte, ed in modo del tutto acritico, la nostra università, con tutto il dipartimento di studi demo-etno-antropologici in prima linea, insieme all’A.I.S.E.A. (Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche) diretta da Antonino Colajanni.

La nostra contestazione e il percorso con Rodolfo Calpini ci portò soprattutto, in senso propositivo, ad un progetto di museologia etnologica sul campo, per il quale lavorammo due anni in un paesino del Viterbese immerso nei boschi, vicino al Lago di Bolsena: Latera.

A Latera l'incontro ci fu soprattutto con gli anziani che intervistammo per ricostruire uso e significato degli oggetti destinati al nascente Museo della Civiltà Contadina “Luigi Poscia”. Calpini ci fece preparare adeguatamente a questo lavoro: ci fece prima frequentare un corso specifico di formazione per acquisire le modalità standard di pre-catalogazione museale tramite compilazione della scheda FKO (Folklore e Obiects) un corso tenutosi, appositamente per noi, presso il Museo delle Tradizioni Popolari dell’Eur attraverso il quale ottenemmo un diploma ufficialmente riconosciuto; quindi, tramite la sua cattedra, ci ingaggiò in gruppo nel paesino di Latera, a svolgere il lavoro di pre-catalogazione degli oggetti inutilizzati che un anziano contadino, il compianto e lungimirante Luigi Poscia (da noi chiamato affettuosamente Gigi), aveva minuziosamente raccolto nel suo garage, incurante degli sberleffi dei suoi compaesani che lo consideravano, per questa sua mania collezionista, una specie di matto. Alloggiando in una casa in paese messa a disposizione dal Comune, e turnandoci continuamente, fummo impegnati per due anni a preparare le schede FKO di ogni singolo oggetto raccolto da Gigi, e per fare questo ci trovammo a dover intervistare spesso gli anziani contadini del paese, per avere luce sull’antico utilizzo di alcuni utensili domestici o agricoli.

Ricostruimmo così il ciclo del lino, del formaggio, della castagna, dell’olio, del grano, e tutti i racconti associati a queste attività, la vita che si accompagnava ad esse, le feste, le ritualità, le credenze, i modi di dire, vedendo così piano piano affiorare, come in un meraviglioso dipinto, la memoria di una civiltà ormai perduta. Fu un’esperienza meravigliosa, anche perché ogni volta che incontravamo queste persone anziane per chiedere dei loro ricordi, portavamo gli strumenti e offrivamo la nostra musica (io con la mia fisarmonica), ricevendone immancabilmente in cambio del buon vino contadino, qualche specialità da mangiare fatta in casa e tanta allegria e voglia di raccontare.

Alla base di queste interviste non c’era solo una mera pre-catalogazione museale in senso tecnico, ma la prospettiva di dare al Museo nascente il ruolo di luogo della memoria, relativamente sia all’antica civiltà contadina perduta, sia, in senso propriamente storico, al duro sfruttamento latifondistico perpetrato in quelle terre, che ad un certo punto aveva provocato l’emigrazione da Latera e la fine di quella civiltà.

Iniziammo addirittura a prendere in considerazione l’ipotesi di trasferirci tutti a Latera, anche perché il progetto di museo che elaborammo prevedeva la ristrutturazione di un antico casale con la terra intorno, in modo di riportare in vita le attività a cui questi oggetti erano legati, sia attraverso il loro uso sia – ed era importante per noi che facevamo teatro – attraverso spettacoli che raccontassero il mondo di un tempo e la storia di Latera. Un museo laboratorio, rivolto principalmente alle scolaresche, in grado di sensibilizzare le nuove generazioni al valore fondamentale del rapporto con la terra, stimolandole al recupero di questo rapporto al di fuori delle logiche di sfruttamento che tanto avevano penalizzato la civiltà contadina di un tempo.

Rodolfo Calpini si adoperò anche presso la Facoltà di Architettura, per far assegnare due tesi di laurea sul progetto di ristrutturazione del casale/museo; ma soprattutto, mediante le schede FKO da noi compilate, ottenne il benestare del Ministero alla costituzione del Museo, di cui fu nominato direttore. Questo avrebbe dovuto fare arrivare anche i finanziamenti necessari e sarebbe stata per noi un’importante opportunità lavorativa. Ma con l’approvazione del Museo, arrivò anche l’improvviso voltafaccia del Comune, che, con il sindaco Giocondo Cherubini, fino a quel momento ci aveva assistito entusiasticamente e che ora iniziò invece ostacolare il nostro progetto.

Il fatto fu che si era inserita nella storia l’ENEL, intenzionata a creare nelle campagne di Latera una centrale geotermica sperimentale. Nell’ambito di questa nuova presenza sul territorio, l’ENEL si mise d’accordo con l’amministrazione locale per realizzare, nella stessa struttura edilizia dove era previsto il Museo della Civiltà Contadina, anche un Museo dell’Energia Elettrica, riducendo di fatto il nostro Museo ad una stanzetta con un po’ di oggetti (in rappresentanza della raccolta di Gigi) messi lì senza troppo senso, come un’innocua testimonianza del passato.

La beffa è che tutto l’impianto museale sarebbe stato chiamato con un unico nome, Museo della Terra, in modo da comprendere sia il materiale della civiltà contadina catalogato da noi, sia il materiale procurato dall’ENEL. E tutto sarebbe stato dedicato alla memoria di Luigi Poscia, che nel frattempo ci aveva lasciati.

Il nuovo progetto di fatto cancellava il nostro, rendendoci impossibile tutto quel che avevamo pensato di realizzare: Rodolfo Calpini, in quanto direttore del Museo, si oppose duramente a questo stravolgimento, e noi ovviamente lo appoggiammo. Misteriosamente, allora, negli uffici del Comune di Latera, scomparvero tutte le schede FKO da noi compilate, tutto il nostro lavoro di pre-catalogazione fu ufficialmente ‘perduto’; a documentare il lavoro svolto ci rimangono ora solo gli attestati che erano stati rilasciati a suo tempo dal Comune.

Il Sindaco e l’Assessore alla cultura pensarono bene allora di far rifare completamente la catalogazione non a noi, ma ad un’associazione di antropologi residenti in un paese vicino, che di fatto ci scavalcava come gruppo di gestione del Museo, costringendo il direttore Rodolfo Calpini, rimasto da solo, a dare infine, con molta sofferenza, le dimissioni.

Probabilmente col nostro attivismo politico eravamo una presenza scomoda vista l’estrema pericolosità ambientale della centrale geotermica, che Calpini aveva subito compreso; la centrale infatti, aperta nel 1999, fu chiusa subito nel 2002, dopo aver provocato piogge acide devastanti per l’agricoltura e perfino una nube tossica che, portata dal vento, se ne andò in giro per la Tuscia.

Va detto che nel determinare le dimissioni di Calpini ci fu anche e soprattutto una nostra responsabilità. Col passare degli anni, infatti, ognuno di noi si era impegnato in altre attività, e un po’ tutti avevamo capito che il progetto difficilmente sarebbe andato in porto.

La disillusione aveva preso il sopravvento ed avevamo di fatto lasciato Rodolfo da solo. Quando ci fece riunire per discutere la situazione e l’eventualità di dimettersi, ci propose anche di non mollare e iniziare insieme una battaglia politica contro la centrale, che già lui aveva compreso essere una bomba ecologica; nessuno di noi, però, – me compreso – espresse la volontà di combattere una nuova battaglia per questa causa. Tale avvenimento segnò per me – e non solo per me – il punto finale del lungo e appassionante percorso fatto con il gruppo di antropologia della Pantera.

Vedevo ora la mia strada solo nelle attività del gruppo di teatro, che, quando terminò l’occupazione, non si sciolse ma, anzi, iniziò a lavorare con più metodo e costanza, non a caso decidendo di non rinnegare il nome di Novanta Teatro Movimento: per noi, l’occupazione e i suoi valori, le sue istanze, non erano finiti ma continuavano a svilupparsi dentro il lavoro teatrale che facevamo ogni giorno, e questo perché, anche se facevamo teatro logisticamente fuori da quella che era stata l’Università occupata, non lo facevamo certo fuori dal Movimento della Pantera e dallo spirito che lo aveva alimentato.

È passato del tempo, tanto tempo, e tante cose sono cambiate; forse non ruggisco più con l’esaltazione e la spavalderia d’un tempo ma ancora oggi io mi sento parte del movimento della Pantera, sento sempre che esiste un filo che mi lega a tutti coloro che hanno fatto parte di quel movimento, a tutto quel che abbiamo condiviso, e che questo filo, almeno per quel che mi riguarda, è ancora vivo nella mia ricerca e nella mia arte, e nello spazio profondo della mia interiorità: ad oggi la Pantera non è stata catturata né tantomeno uccisa».

 

 

(3ª Parte – Fine)

 

(Tratto da Storia di un cantastorie. Daniele Mutino, una fisarmonica itinerantecapitolo “C’era un’onda chiamata Pantera” ‒ raccon­to/in­ter­vista a cura di Maria Lanciotti. Seconda edizione riveduta e aggiornata, con la prefazione di Simone Sassu, musicista, presidente Archivi Sassu, Edizioni Controluce febbraio 2019.

Il libro è corredato di un inserto fotografico che racconta per immagini, in ordine cronologico, le vicende narrate).

 

 

C'era un'onda chiamata pantera di Carmelo Albanese

(Promo del film)


 

Foto allegate

90TM. Daniele Mutino durante la
Il paese di Latera
Il professor Rodolfo Calpini e Daniele Mutino con fisarmonica e costume di scena
Emilia Corrente e Daniele Mutino in spettacolo a Latera con il loro carretto del cantastorie, 1993
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